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La parabola dell’horror

Tempo di lettura: 10 minuti

Questa analisi è stata pubblicata integralmente sul numero 29 del Living Force, fanzine del Fan Club Yavin 4, di cui sono stato Presidente e di cui sono orgoglioso membro.

Il genere horror ha radici molto profonde nella cultura cinematografica mondiale e, nella sua forma più ingenua e genuina, vede l’alba già alla fine del milleottocento sottoforma di cortometraggi, per così dire, d’autore.
La sua evoluzione ha poi preso vie complesse a volte diramandosi in generi e sottogeneri differenti ma più spesso rimanendo fedele a quella che sarebbe la sua identità originaria: un horror deve suscitare emozioni di angoscia e paura e nel farlo deve coinvolgere eventi di portata sovrannaturale (sotto forma di demoni, mostri, fantasmi).
Proprio partendo da questa considerazione di base ho sempre pensato la storia del cinema horror come un viaggio destinato a suddividersi in tre differenti Ere, caratterizzate da elementi ricorrenti e soprattutto da una sapiente produzione hollywoodiana.
Solo, come vedrete, all’alba della terza Era, le cose hanno iniziato a cambiare.
La prima Era, targata quasi in tutto e per tutto con l’effige britannica “Hammer”, si conclude alla fine degli anni settanta, con l’ultima fatica della mitologica (e mitica) casa di produzione tra i cui pupilli spiccavano Christopher Lee e Peter Cushing. Siamo a un horror di stile e curato. I primi approcci maturi al genere forse, ma di sicuro qualcosa che, per successo e per quantità, ha dato lustro a questo tipo di cinema. La maggior parte delle produzioni di questo lungo, lunghissimo periodo si rifanno ai classici horror letterari e li estendono in molte direzioni sconfinando persino nel cinema sperimentale di registi come James Whale.
Due principali titoli, destinati a diventare veri e propri capisaldi del genere, si discostano dal panorama ‘classico’ dell’horror d’autore di questa epoca. Due titoli che catalizzeranno a distanzia le forze destinate, trent’anni dopo, a esprimersi nella loro pienezza. “L’Esorcista” di William Friedkin (1973) e “L’alba del morti viventi” di George A. Romero (1978): per la prima volta abbiamo bambini e adolescenti come veicoli di un male in grado di colpire gli adulti.
La seconda Era non raccoglie il pesante testimone della Hammer, dei Dracula romanzati e romanzeschi, dei Frankenstein nobili e carismatici ma esplora, in un modo del tutto particolare, orizzonti differenti dell’horror. A partire dalla fine degli anni settanta fino alla fine degli anni novanta diventa chiaro quali saranno i nuovi idoli del terrore.
Il ragazzo-zombie immortale e assetato di sangue, in cerca di vendetta o semplicemente impegnato nell’assassinio di chiunque gli capiti a tiro fa la sua prima, seriale, comparsa con “Halloween” di John Carpenter (1978). Un pioniere, un precursore di una vastissima filmografia sul genere. A tappe serrate, nei sei anni successivi, prendono vita altre icone di questo nuovo horror sanguinario e la loro ingombrante figura terrà compagnia agli appassionati per gli anni a venire monopolizzando, sotto certi aspetti, la creatività e la produzione d’elite di questo genere.
Un’Era, questa seconda, destinata perciò a non chiudersi mai completamente ma a decadere in seguiti che hanno della creatività originale solo lo stesso titolo relegandosi spesso nell’horror/commedia, o a perdersi in cerca di buffi espedienti per rinverdire personaggi di un’altra epoca. Con il remake di “Halloween” firmato da Rob Zombie (2008) si aprono le danze preparando il terreno ad altri rifacimenti(“Venerdì 13” e “Nightmare“); una pratica allarmante che indica la crisi holliwoodiana di cultura horror.

Hollywood perciò si dedica a film di basso o nullo profilo, il cui scopo si perde del tutto.
Per alcuni registi l’horror diventa una sorta di sperimentazione di regia o di intenti che spesso attinge da produzioni orientali. Un rogo al quale immolare capacità e talento producendo qualcosa che, dotato di una nicchia solida e irriducibile di appassionati, ha un minimo di incasso garantito.
Per altri invece, la faccenda è ben differente.
In questo contesto si identifica la nascita di una terza Era che spodesta gli Stati Uniti di uno scettro armai abusato. Le prime avvisaglie di uno sdoganarsi dallo stereotipo dell’horror/commedia di dominio americano iniziano nel 1997 quando il trentatreenne Guillermo Del Toro, messicano ma con forti legami iberici, lancia la sua prima vera produzione internazionale: “Mimic”. A ruota viene seguito da Jaume Balaguerò, regista catalano che nel 1999 e senza saperlo dà vita a un nuovo filone di horror concettuale con “Nameless”. Come isole in mezzo all’oceano (forse proprio l’Atlantico che separa il Vecchio Continente dagli USA) emergono nuovi registi. Il giovanissimo Alexander Aja, parigino, che a soli venticinque anni dà una bella prova con “Alta Tensione” e l’inglese Neil Marshall che con “The Descent” mette insieme stereotipi horror con emozioni e storie vere e proprie di personaggi che non sono solo vittime sacrificate al mostro di turno. Ma il triangolo aperto da Del Toro e Balaguerò si chiude, a mio avviso, con Juan Antonio Bayona, catalano (sarà un caso?) e al battesimo del fuoco con “The Orphanange”. Cosa è cambiato nell’horror post-Hollywood (o meglio dire anti-Hollywood)? Ho scelto questi tre registi, Del Toro, Balaguerò e Bayona, perché rappresentano un vero e proprio filone, una vera e propria filosofia con temi ricorrenti molto chiari e con una voglia di portare (o riportare) l’horror più vicino a un mainstream piuttosto che a pellicole comunque di concetto.
Un denominatore comune unisce a doppio filo i tre registi: i bambini. Una ripresa di tematiche affrontate in passato.
L’avvio di questa “passione”, della volontà antitetica di contrapporre il male all’innocenza già è evidente nel primo film di Del Toro. Il concetto, poi esteso ed espresso in modo ancora più potente dai due più giovani registi, è questo: il male assoluto può essere fatto attraverso o con la catalisi dei bambini. E’ una contrapposizione semplice e immediata ma non per questo meno forte. Chi non sacrificherebbe ogni cosa per il bene delle creature più innocenti che ci è dato immaginare? Quale male può essere più terribile di quello che passa attraverso i bambini o per colpire o per scuotere gli adulti? Concetti semplici ma poliedrici. Un bambino ha con se un insieme di emozioni ed emotività molto vasto. L’amicizia, l’amore dei genitori, l’istintivo desiderio di protezione, la purezza. E, tra le altre cose, la consueta normalità che la sua presenza trasmette, per esempio, in un contesto famigliare. Quale dolore più grande del perdere un figlio? Quale peggiore accadimento se non quello di stravolgere l’ordine naturale delle cose nell’assistere, appunto, alla morte del figlio?
“Mimic” (1997) dimostra, già nella cura di atmosfere e titoli iniziali, che vuole in qualche modo fare la differenza rispetto ai polpettoni senza spina dorsale che ammorbano gli scaffali delle videoteche. E qui la tematica della catalisi di cui sopra è motore iniziale del film: un’epidemia trasmessa dagli scarafaggi sta uccidendo tutti i bambini di Manhattan. Perciò i bambini sono in pericolo. La scena d’apertura del film, un sanatorio molto gigeriano con decine di letti occupati da piccoli morenti è potente. La reazione dell’uomo adulto è semplice: fare qualsiasi cosa per salvare i piccoli. Ecco allora che un’entomologa stravolge l’ordine naturale delle cose liberando uno scarafaggio modificato geneticamente in grado di secernere un potente veleno, destinato a uccidere gli insetti portatori del virus.
Perciò l’uomo piega la natura perché sono in pericolo i bambini. E questo scatenerà un male enorme, ben peggiore, in potenza, di una semplice epidemia.
Del Toro utilizza ancora i bambini ne “La Spina del Diavolo” e ne “Il Labirinto del Fauno”. Ogni volta il contrasto tra l’innocenza propria della fanciullezza e il male è presente. Nel Labirinto del Fauno l’epilogo è assoluto e inedito, più coraggioso ancora che in Mimic. La morte della bambina protagonista frantuma in poche scene uno degli stereotipi noiosi e pavidi dell’hollywood horror: i bambini non si devono toccare, in un modo o nell’altro sono eroi da preservare contro la logica narrativa. Non è così per nostri nuovi registi. Sono causa, tramite e vittime del male.
Questo concetto, questo intento, è magistralmente amplificato da Balaguerò. In modo timido con “Namless” (1999) dove una setta che persegue la ricerca del male assoluto lo raggiunge facendo sì che una figlia, dopo essere sparita per più di cinque anni e dopo essere riapparsa e infine trovata, si uccida davanti alla madre. Un messaggio potentissimo che in colpo solo ci sbatte davanti la potenza dell’amore materno (motore dell’interno film), la crudeltà della perdita e l’amplificazione del male se commesso da una creatura innocente.
In “Darkness” (2002) lo troviamo esteso nella più genuina tradizione di un horror più negli schemi: un rito prevede che i bambini vengano uccisi dai genitori per permettere la nascita dell’oscurità. Perciò, il più grande male può nascere solo attraverso il sacrificio dei bambini, uccisi da chi li ama. E qui Balaguerò precorre, involontariamente, Del Toro. Davanti a necessità narrative e di trama, non ci sono sconti. Nella sua tela horror, i bambini non hanno comunque scampo.
“Fragile” (2005) segue le stesse orme, seppure con passi di lato. L’amore di un adulto per i bambini, che diventa morboso come solo l’attaccamento di una creatura corrotta a qualcosa di puro come un fanciullo malato può essere, è il motore del film. Ancora lo stesso legame, rafforzato dalla malattia che colpisce i piccoli protagonisti del film, che si lega in qualche modo a Mimic, ma che questa volta scatena il male non nel tentativo di salvare loro la vita, ma nell’egoismo contorto e malvagio di un adulto. Il solo concetto che un’infermiera, per non allontanarsi dai bambini malati dei quali si prende cura, infligga loro dolore e ferite in modo da tenerli a se, è tremendo. E’ horror per la sua incursione nel mondo degli spiriti, ma le basi, i principi, i sentimenti salgono molto più in alto.
Ultimo, ma solo in termini temporali, Bayona con il suo “The Orphanage” (2007). Bayona può vantare tra i suoi produttori proprio Del Toro perciò una deriva sulle tematiche trattate dal regista messicano c’è, e non è una scoperta di cui vantarsi. In questa pellicola troviamo molte delle tematiche sopra sviscerate. Abbiamo il bambino malato, orfano come la protagonista che lo adotta. Abbiamo l’amore di questa madre. Abbiamo il puro e immacolato sadismo crudele dei bambini nei confronti del compagno deforme, che per uno scherzo ne causano la morte. Abbiamo l’odio corrotto e inossidabile della madre di questo bambino deforme che uccide i responsabili dello scherzo fatale. E, a chiudere il cerchio, abbiamo la protagonista che si toglie la vita quando si scopre causa della fatalità che ha ucciso il suo figlio adottivo. Un cerchio tremendo in cui si intersecano la pura crudeltà che solo i bambini, scevri dai preconcetti dell’uomo adulto, possono infliggere, l’amore di una madre e l’odio di una madre. E in questa girandola collaudata e sapiente di emotività e horror, i bambini che sono causa e vittime delle emozioni dei grandi.

Tirando le fila del discorso, con questi tre registi simbolici (ve ne sono altri, per esempio il cileno Amenabar di “The Others”, 2001 o il più recente e disturbante “Martyrs”, 2008 di Pascal Laugier) credo sia stato varato e consolidato un nuovo modo di fare horror. Un horror che abbandona e si distacca dal lungo tramonto dei remake da Seconda Era peggiori degli originali. Un horror che raccoglie emozioni e regia nuove. Un horror incentrato sulla creazione di atmosfere che attingono al vasto pozzo emotivo dei protagonisti (non più inutili sacche di sangue da massacrare, ci tengo a ripeterlo) e che poi accelera nella dissolvenza finale con picchi di tensione e con una capacità del suo mantenimento decisamente rara. Un horror che, lontano dalle influenze di Hollywood, credo proprio possa (e a mio parare già lo sta facendo) risollevare le sorti del suo genere.

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