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IL FIORE DELLA QUINTESSENZA

Tempo di lettura: 5 minuti

E ci siamo. Il Fiore della Quintessenza, antologia edita da Ali Ribelli Edizioni e curata da Sergio Mastrillo, è finalmente disponibile per la prenotazione anche in ebook (data ufficiale di uscita, 24 novembre, mentre in cartaceo già lo potete acquistare). Uno dei progetti più interessanti a cui mi sia capitato di partecipare. Ma di cosa parla l’antologia? Rubo dalla quarta di copertina:

“Immagina l’intero universo racchiuso in un punto microscopico che viaggia lungo un petalo. Immagina sedici petali con centinaia di universi che s’intrecciano. Stami e Pistilli che si allungano dai vertici di un Ipercubo e zampillano nella Quinta Dimensione. Ecco, ora vedrai una corolla. Immagina strane voci che raccontano sedici storie di mondi incredibili. Remote frequenze. Proiezioni parallele. Crocevia del Sense of Wonder. Ora sentirai la musica del Multiverso. Ecco, ora vedrai un Fiore della Quintessenza.”

Antologia che raccoglie sedici racconti inediti scelti tra i migliori autori di fantascienza in Italia.
Storie che aprono le porte della percezione verso mondi in cui è sempre facile perdersi.
In queste nuove, surreali dimensioni le regole che conosciamo non valgono più, se non per avere un termine di paragone.

Già queste poche righe offrono indizi fondamentali. Uno: sedici autori, e tra questi ci sono anche io. Due: il fil rouge (o il tessuto iperconnettivo) che si intreccia intorno a ogni racconto formando un solido esoscheletro concettuale è il Multiverso. Perciò universi paralleli declinati nelle più incredibili, varie, pittoresche e intriganti configurazioni. Un fiore multidimensionale ripreso anche dalla splendida copertina che si schiude, un racconto alla volta, offrendo visioni tanto uniche quanto suggestive.

Con un po’ di fortuna‘ è il mio contributo alla Quintessenza e racconta di un professore di fisica, di un manicomio spaziale e di una minaccia difficile persino da concepire. Un pericolo che arriva da un’altrove diverso – quasi speculare – al nostro.

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Di seguito l’incipit del racconto.

CON UN PO’ DI FORTUNA

Il professor Abraham Melzi non amava volare. Non biasimava piloti e astronauti, non si
spingeva a considerarli pazzi spericolati ma nell’intimo – anche se non lo avrebbe mai
ammesso pubblicamente – era convinto che la passione per il volo nascondesse qualcosa di
irrisolto. Era quasi sicuro che il desiderio di staccarsi dal suolo, di mettersi a bisticciare con la
legge di gravità, di addentrarsi in un ecosistema che aveva ben poco in comune con la praticità della terra fosse sintomatico di altro. Di una devianza tutta da dimostrare ma che si
manifestava, senza ombra di dubbio, attraverso quel desiderio illogico.
Certo, aveva preso qualche aereo ma solo quando era stato assolutamente necessario. Il primo volo risaliva a quasi quindici anni prima, in occasione della morte dei genitori, quando era stato costretto ad accompagnare moglie e figli al loro funerale dal vivo. E più di recente – molto più di recente – un numero sconsiderato di volte per spostarsi da un continente all’altro, da un incidente all’altro. Da un manicomio all’altro.
«Cliniche per la salute mentale» borbottò senza staccare gli occhi dal pavimento dell’astronave su cui si era imbarcato in fretta e furia quella stessa mattina. Per lui, per il suo mondo fatto di numeri, le giravolte semantiche erano difficili da comprendere fino in fondo. Una cosa era una cosa, a prescindere da quale delicatezza si usasse per descriverla. E un manicomio era un
manicomio. Punto.

«Professor Melzi? Le serve qualcosa?» chiese l’assistente di volo. Un ragazzotto alto e snello,
sui trent’anni, che indossava la divisa bianca e verde dell’Istituto. Gli doveva aver detto come si chiamava almeno un paio di volte, ma Abraham proprio non riusciva a ricordarne il nome.
Melzi strizzò gli occhi, incassò la testa tonda e calva tra le spalle e poi sfilò dalla tasca un indice accusatore: «Le ho detto di non rivolgermi la parola. Mai. Almeno fino a quando non saremo arrivati – sferzò: «Vuole farmi impazzire?» cercò di tenere bassa la voce ma si rese conto di
non esserci riuscito. E quando so innervosiva sapeva che la sua voce si alzava di un paio di
ottave diventando troppo stridula.
«Mi scusi, professore» si mortificò il ragazzo dell’Istituto.
Non era colpa del giovane, certo che non era colpa sua. Ma era già abbastanza difficile stare
rinchiuso all’interno di uno stramaledetto guscio metallico sospeso nel nulla cosmico, con il gelo e la morte dello spazio tutto intorno. Cosa pretendeva il ragazzo? Di fare conversazione? Di chiacchierare del più e del meno mentre tutto intorno, oltre i troppi oblò che bucherellavano lo scafo, sfilavano stelle e pianeti lontani?
«Non fa niente» mentì Melzi ritirando l’indice e trasformandolo in un vago gesto di noncuranza: «Mi … mi scusi» biascicò poi, di nuovo assorbito dal pavimento dell’astronave.
La verità? Odiava volare e più di ogni altra cosa odiava lo spazio. Lo odiava perché lo temeva e perché da un amplesso con la paura, dall’incontro quasi erotico tra la propria razionalità e le
selvagge ombre del panico, non nascevano mai cose buone. Eppure era lì, su una nave
dell’Istituto, in volo verso il Centro Spaziale per il Recupero Mentale. Un volo che durava da … quanto?
Ore. Interminabili, sgocciolanti, melmose ore.
Cataste di minuti nelle quali, oltre che sobbalzare alla minima vibrazione, Abraham non aveva fatto altro che ripetersi ciò che avrebbe dovuto dire una volta sbarcato al CSRM. Un discorso tanto appassionato quanto improbabile, figlio di una teoria tanto improbabile quanto appassionata.

Insieme a me nella Quintessenza, compagni nell’esplorazione di un Multiverso caleidoscopico: D.Altomare, S.M. Barbacetto, T.C. Blanc, L. Davia, D. Del Popolo Riolo, L. De Santi, I. Drago, A. Forlani, E. Gastaldi, L. Marinelli, I. Petrarca, G. Repetto, R. Vezza, A. Viscusi, S. Vita con la postfazione di Sandro Battisti.

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