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First Man – di Damien Chazelle

Tempo di lettura: 3 minuti

Fa sempre uno strano effetto intuire di trovarsi davanti a qualcosa di particolare ma non riuscire ad afferrarne contorni e specifiche, non essere in grado di capire il perché quella cosa ha una sua unicità: scatena un vago senso di colpa e di inadeguatezza. A ben pensarci questo disagio concettuale dovrebbe essere smezzato tra chi fruisce e chi offre il prodotto artistico, una divisione più o meno equa di responsabilità, ma siccome non conosco Damien Chazelle me ne sono fatto carico io e ci ho riflettuto a lungo.
Questa breve e in parte sofferta riflessione nasce dal fatto che First Man non mi ha fatto impazzire, anzi. Il film è, in sostanza, la trasposizione cinematografica della biografia di Neil Armstrong (interpretato dal sempre più algido Ryan Gosling), dei suoi drammi personali, di come questi si sono integrati con la carriera da astronauta fino al culmine delle esperienze di una vita intera: l’allunaggio del 20 luglio del 1969, data storica per l’uomo e per l’umanità.
I problemi derivano tutti dalla scelta consapevole di Chazelle di offrire allo spettatore qualcosa di molto distante e alieno. E’ alieno Armstrong, il suo modo di essere e di pensare ed essendo lui il protagonista dell’intera pellicola, viene eretto un muro a tratti invalicabile tra noi e la narrazione. Il regista decide di assottigliare questo muro, e lo fa quando vuole portarci all’interno delle cabine di pilotaggio. I voli attraverso l’atmosfera riprendono la bella umanizzazione dello spazio che Alfonso Cuarón aveva brillantemente sperimentato nel suo Gravity: i violenti rumori, il senso di claustrofobia, il caos della Terra e il silenzio dello spazio. Perciò Chazelle vuole, fortissimamente, che noi riusciamo a provare empatia per Armostrong SOLO quando l’astronauta si trova in volo. Solo quando dimentica sofferenze e privazioni, solo quando rischia la vita per raggiungere la figlia morta di cancro perché nel 1969 arrivare sulla Luna per primi voleva dire raggiungere il paradiso.
L’idea di Chazelle è all’avanguardia, sperimentale, e su carta è un esperimento di meta-cinema che potrebbe davvero essere molto interessante. Il problema è che quando sollevi un muro, quando lo fai per quasi due ore e mezza lasciando davvero pochi spiragli a disposizione, l’esperimento rischia di trasformarsi in esercizio di stile. Intendiamoci, First Man ha una sua anima, una sua identità, solo che fa di tutto per dissimularla. E se anche questo è voluto (perché lo è), non significa che sia funzionale.

Chazelle sovraespone il pubblico a eccessi di realtà che, ripetuti, finiscono con il perdere carattere. Decide di affrontare i drammi storici mostrandoceli a volte attraverso il potente filtro emotivo di Armstrong (la morte dei primi amici colleghi), a volte attraverso una ricostruzione esterna (l’incidente e il rogo dove perdono la vita altri tre astronauti) e questo toglie riferimenti. Capisco e comprendo quello che voleva fare il regista e sotto molti aspetti lo ammiro anche, ma la somma del tutto è inferiore al valore delle singole parti. In un contesto nel quale l’emotività diventa la chiave di volta attraverso la quale comprendere un’intera pellicola (penso all’Arrival di Denis Villeneuve, e in parte anche al suo Blade Runner 2049), Chazelle sottrae, riduce ai minimi termini opponendo alle sensazioni dello spettatore l’assenza di emozioni manifestate del suo protagonista. Entrare in empatia con Armstrong è molto difficile e forse non era nemmeno l’obiettivo.
Ciò detto, Chazelle è e resta un giovanissimo regista davvero molto, molto interessante.

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