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Nell’erba alta – di Vincenzo Natali

Tempo di lettura: 4 minuti

Quello di Vincenzo Natali è un nome molto noto nel panorama horror. Suo è il piccolo/grande capolavoro di The Cube, suo è l’interessante ma riuscito a metà Splice e suoi sono due dei migliori episodi di The Strain, serie horror nata dalla fantasia di Guillermo del Toro e Chuck Hogan. Natali non è un turista del terrore e ha un curriculum che di certo non si ferma a quanto ho appena citato. Alla fine anche lui approda su Netflix con una sfida non di poco conto: trasformare in un film ‘In the tall grass‘, racconto a doppia firma di Stephen King e del figlio Joe Hill.

Netflix non si piazza ai primi posti nel complicato campionato delle trasposizioni di King in versione lungometraggio. 1922 è cosa da poco, Il gioco di Gerald è cosa ancor meno pregiato perciò già Natali si presenta all’appuntamento partendo da sfavorito. Ma, proprio perché non si tratta di un regista improvvisato decide di fare l’unica cosa giusta: prende la storia di King/Hill, la scompone e la interpreta cercando di portarla su un terreno a lui congeniale. E il risultato è una buona pellicola horror.

Cal e Becky sono due fratelli che attraversano l’America per cercare di ‘gestire’ la gravidanza indesiderata di lei ed è proprio la fatica della gravidanza che li costringe a fermarsi nei pressi di una chiesa abbandonata. Qui i due sentiranno una voce di bambino provenire dallo sterminato campo di erba alta, una voce che chiede aiuto. È Tobin, un ragazzino smarrito. Cal entra, e subito dopo di lui entra anche Becky. Ma le cose, ben presto, si complicano. L’erba alta sembra confondere, spostarsi, allungare o ridurre le dimensioni e nemmeno lo smartphone funziona più. Chi c’è intrappolato insieme a Cal e Becky? E cosa rappresenta quella strana roccia al centro del vasto campo d’erba?

Natali fa due cose: la prima ricondurre la partita alle atmosfere claustrofobiche che sa e può amministrare con efficace. L’erba copre ogni visuale, inghiotte suoni, luci, ombre. L’erba si ripete uguale a sé stessa, proprio come il suo Cubo, e proprio come nel Cubo può nascondere pericoli. La seconda cosa è giocare con il tempo esponendo sé stesso e la pellicola al rischio di incappare nei paradossi temporali. Eppure, anche in questo caso, amministra il pericolo e lo dribbla con una certa disinvoltura. Prima annulla geografia e storia: fino a quando Becky non tenta di chiamare la polizia con il suo smartphone, l’impressione è di essere in un’America senza tempo ma più vicina agli anni sessanta che al presente. Poi ci confonde con il mare di verde, facendoci partecipare alla confusione di Becky e Cal, togliendoci ogni riferimento (se non quello dello cose morte:”L’erba non sposta le cose morte“), riuscendo a creare un collegamento con la paura che chiunque sia mai entrato in campo di grano ha provato. Quella di perdersi, di non uscire mai (Lindqvist con il suo romanzo L’altro posto fa un’operazione simile). E alla fine, quando siamo arrivati dove ci ha voluto portare, inizia a giocare con il passato, il presente e il futuro.

Natali crea un cortocircuito di labirinti impossibili, di presenti e futuri circolari, tutti catalizzati dall’erba e dalla roccia misteriosa che strizza l’occhio alla preistorica presenza malvagia di Pennywise a Derry. Lo fa, certo di non poter offrire alcuna spiegazione allo spettatore e proprio per questo insiste sull’improbabile persistenza dell’erba, sulla sua natura tra l’alieno e il mitologico. Semina indizi, Natali. La chiesa, luogo religioso che sorge nei pressi di un male difficile da inquadrare e più in là, in un altrove privo di coordinate, il dimenticato bowling. Non-luogo, forse residuo di un tempo alternativo, immagine di superficie del sotto-sopra di Stranger Things. Cita, omaggia, senza mai incorrere nel plagio o nella sensazione di odiosa mancanza di idee. E lo fa senza aver paura di osare spingendosi dove vuole, senza nessun tipo di timore arrivando a concepire una sequenza davvero disturbante.

Copyright: Steve Hoban, Jimmy Miller, M. Riley

Quindi Nell’erba alta è un film perfetto?

No, assolutamente. Ha dei problemi ma non imputabili alla mano del regista, e nemmeno alla sua bella reinterpretazione del racconto di King/Hill. Basso budget, supporti tecnici di qualità non eccelsa, un cast che funziona solo per un quinto (Cal e Becky sono davvero trascurabili, così come il piccolo Tobin e Travis, solo Patrik Wilson fa il suo dovere). Resta il dubbio di cosa avrebbe potuto ottenere Natali giocando in serie A, cioè al cinema, con qualche fuoriclasse in più nella sua squadra.

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