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ONWARD, OVVERO LA GENERAZIONE RITROVATA?

Tempo di lettura: 4 minuti

Se è vero che due indizi fanno una prova, a un certo punto deve essere successo qualcosa in casa Pixar. Una sorta di conflitto armato interno, uno scontro forse iniziato dalla pellicola ammazza-sogni Soul e a cui la stessa Pixar, come in una sorta di bipolarismo emotivo, ha risposto con Onward. Di cosa parlo? Dei sogni di un’intera generazione che prima vengono uccisi e ai quali poi viene chiesto (anche se non tutto è come sembra) di risorgere. Avevo scritto di Soul:

È cinica la de-costruzione della vita di Joe. Le sue giornate. La sua so(u)litudine musicale alla ricerca di qualcosa che rischia di non arrivare mai. Il suo scendere a costanti compromessi, il non saper mai decollare davvero, la ali sempre imbrigliate da un sogno che potrebbe (dovrebbe?) non avverarsi mai. Ed è cinico, più e sopra di tutto, il raggiungimento del sogno. Il fatto che una volta afferrato quello che si insegue da tutta una vita ciò che rimane tra le dita può essere meno di quanto ci si aspettasse. Docter ci mette in guardia. Ci mette in guardia dai sogni. Ci mette in guardia dalla convinzione di dover avere una scintilla a tutti i costi. Perché si rischia di diventare anime perse o, peggio, si rischia di investire un’esistenza, di puntare tutta la propria vita verso qualcosa che una volta raggiunto si rivela per quello che è: un sogno pronto a evaporare alla luce del mattino.

Onward si oppone alla disillusione di Soul per la magia del sogno e fa un’operazione quasi – badate bene, quasi – inversa. La magia – la vera magia, quella di un mondo fantastico fatto di incantesimi, di oggetti magici e di quest – esiste. O meglio esisteva. È solo dimenticata, sepolta dalla narrazione della tecnologia che proprio per la sua accessibilità ha innestato il nostro presente comune nel mondo fantastico di Onward. Ma restano scampoli di questo passato magico, tracce che vanno oltre le razze che popolano Onward, isole di resistenza al tecno-imborghesimento a cui elfi & co. sono andati incontro. E chi incarna queste oasi? Nemmeno a farlo apposta, più di tutti, un nerd post-ante-litteram, l’elfo Barley Lighfoot. Un giocatore di ruolo che rivive le glorie del dimenticato passato fantastico proprio nelle avventure di gioco che però qui attingono a piene mani alla realtà storica del mondo in cui Barley e suo fratello Ian vivono.

Copyright: Kori Rae

A catalizzare quei possibili giorni di un futuro passato, un evento tragico. La prematura scomparsa di Wilden, padre dei due ragazzi. Una scomparsa terrena, dura, fatta di tubi, letti d’ospedale e sofferenza. Una scomparsa a cui si oppone la magia ricercata da Wilden nel tentativo di regalare al papà elfo un giorno insieme ai propri figli quando questi saranno grandi, anche dopo la sua morte. Perciò ecco che il mondo passato, la gloria e lo stupore di un tempo che non è più, diventano la quest dei fratelli Lighfoot. Dovranno riscoprire lo stupore, il valore del passato, la gioia della meraviglia, il coraggio di sognare. Quindi le ferite che Soul ha inflitto alla generazione degli anni ’80, addestrata alla promessa dei sogni, della fantasia e della creazione sono finalmente risanate?

Non del tutto. La resurrezione – o la richiesta di resurrezione – è solo parziale. Perché sì, la magia, la storia, lo stupore, la capacità di inventare e di essere maghi sono al centro della narrazione di Onward. Ma il vero nucleo è altro. È il capire cosa si ha. Cosa già si possiede. La fortuna dell’essere ciò che si è, la consapevolezza del viaggio fatto insieme a prescindere dalle possibilità che la magia apre. E, intendiamoci, è un tema forte e commovente. È un tema che mi ha cavato lacrime come fossero sangue da una rapa. Ma, e questa volta in modo più mascherato, la Pixar intima di ‘alzarsi e camminare’ all’intera generazione che da distrutto con Soul, salvo poi fargli lo sgambetto e riportarla in un commovente ma tranquillo terroir di quotidianità. È un bene? È un male?

Di certo è bello. Soul e Onward sono animazioni profonde. Si ride poco, si sorride un po’, si piange tanto. Di gioia, anche. Di esperienza vissute, di immedesimazione, di ciò che si vorrebbe poter fare, poter provare, poter sentire. E questo è tipico delle cose belle. Ciò detto ai figli degli anni ’80, è permesso ancora sognare o no?

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