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Recensioni Film – ‘Django Unchained’ di Quentin Tarantino

Tempo di lettura: 4 minuti

Capita (di rado) che un regista entri talmente tanto nel ruolo di se stesso da creare un genere cinematografico a parte, che riguarda lui e lui soltanto. E se questo si accompagna a un successo stratosferico, ecco che criticare un film di Tarantino perchè è tarantiniano diventa impossibile. Piace o non piace, e se appartenete al primo gruppo di gradimento, diventa inevitabile perdonargli ogni assurdità o pacchianeria.

E quindi recensire un film di Quentin Tarantino come se si trattasse di una pellicola qualunque diventa molto difficile. Per questo, prima di proseguire, mi ricollego a quanto detto in precedenza: io sono un fan di Tarantino perciò ‘Django Unchained’, indovinate, mi è piaciuto. Non è all’altezza de ‘Le Iene’ (1992) o ‘Pulp Fiction’ (1994), film nati quando ancora la surrealtà macabra di Quentin non aveva presto del tutto coscienza dando poi origine ai due ‘Kill Bill’ (2003 – 2004) e soprattutto all’ucronico ‘Bastardi senza gloria’ (2009). Se infatti dovessimo cercare una similitudine tra Django e le altre opere pulp di Tarantino, direi che il film a lui più affine è proprio ‘Bastardi senza gloria’
L’ambientazione di Django è western, e su questo non ci piove. Django (Jamie Foxx), schiavo di colore, viene liberato dal cacciatore di taglie tedesco King Schultz (Christoph Waltz) con il quale inizia a fare coppia in attesa che i tempi maturino per la vera e importante missione di Django: ritrovare la moglie Broomhilda, anche lei ridotta in schiavitù e da lui separata durante la fuga da una piantagione.
La colonna sonora è da urlo e il cast lavora alla grande. Il duo Christoph Waltz e Jamie Foxx macina senza pietà creando dinamiche che sono la fine del mondo e i caratteristi fanno scintille (Don Jhonson, Samuel Jackson e Leonardo Di Caprio sopra tutti, ma anche il piccolo cameo di Franco Nero che la dice lunga sull’amore di Quentin per gli spaghetti western). Alcune parti, come il drammatico dilemma dell’embrionale Ku Klux Klan riguardante la possibilità o meno di indossare cappucci a cavallo, sono puro surrealismo tarantiniano, ironico e a ritmo serrato, mentre altre attingono a dinanimche consolidate. La seconda parte della cena a casa di Calvin Candie (Leo Di Caprio), per esempio, è un crescendo emotivo mascherato da un lungo monologo che ipnotizza e richiama molto ‘Bastardi senza gloria’, in quella incredibile sequenza nella cantina con Fassbender e la SS impegnati nel gioco dei personaggi.
Molto del successo del film, sia come impianto di scrittura narrativa sia come contenuto recitativo, deriva da Christoph Waltz. Il suo cacciatore di ebrei Hans Landa che in ‘Bastardi senza gloria’ bucava lo schermo ha, per come la vedo io, convinto Tarantino a creargli un personaggio su misura. Ecco spiegato il cacciatore di taglie tedesco che, a conti fatti, è il vero motore del film: lui libera Django, lui parla tedesco e scopre dove si trova Broomhilda, lui inizia l’ex schiavo ai segreti di un’America primordiale, pre guerra civile. Lui, tra le altre cose, è totalmente avverso alla schiavitù e alle differenziazioni razziali da creare un cortocircuito interessante: nei ‘Bastardi’ Waltz era uno spietato cacciatore di ebrei, razzista per antonomasia.
Negli States ‘Django Unchained’ ha scatenato una mai del tutto sopita polemica sul tema del razzismo guadagnandosi le critiche di Spike Lee e, vedendolo con un occhio malizioso, può anche essere che tratti in modo leggero temi che invece hanno un carico emotivo ingombrante. Ma, come dicevo, la malizia è tutta nell’occhio di chi guarda. Tarantino, nella sua storia, ha sempre gestito con grande equidistanza (ed equità) le interazioni razziali: così continua a fare anche in ‘Django’.
Lo fa a modo suo ma come dicevo, se Tarantino non interpretasse se stesso quando gira un film, non sarebbe Tarantino.

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