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[Recensioni Film] – ‘Snowpiercer’ di Bong Joon-ho

Tempo di lettura: 4 minuti

VOTO:★★★★½

“Ecco un’idea che avrei voluto avere io” questa è la prima cosa che ho pensato guardando ‘Snowpiercer’ di Bong Joon-Ho. Ispirato a una graphic novel francese, ‘Le Transperceneige’, diretto da un regista coreano che sa il fatto suo e affidato a una cast di impronta hollywoodiana (Chris Evans sopra tutti) dimostra una volta per tutte come il terzetto reboot, remake, sequel non sia l’unica risposta alla crisi creativa del cinema di genere. Anzi.
Il futuro raccontato da ‘Snowpiercer’ è una forte e connotata distopia. Nel 2014 il riscaldamento globale è diventato il primo problema dell’intera umanità: per risolverlo la maggior parte dei paesi decide di ricorrere al CW7, una sostanza che se liberata nell’atmosfera promette di sistemare ogni cosa. Ma gli effetti collaterali sfuggono al controllo precipitando l’intero mondo in una micidiale e repentina glaciazione. L’unica via di salvezza è ‘L’Arca Sferragliante’ ideata dal misterioso signor Wilford: un treno tecnologico che compie il giro del mondo in un anno esatto. Dotato di un sistema di propulsione inesauribile, lo ‘Snowpiercer’ è composto da moltissimi vagoni e organizzato secondo un preciso posizionamento dei passeggeri. In testa la classe dirigente di un mondo in miniatura, in coda i poveri, i derelitti, coloro i quali hanno ricevuto il biglietto per ultimi. Bong Joon-Ho inizia da qui a raccontarci la sua storia. Dal terzo tentativo di ribellione in 17 anni (siamo nel 2031) guidato da Curtis (Chris Evans), dal saggio Gilliam (John Hurt) e dal giovane e irruento Edgar (Jamie Bell). L’obiettivo è la testa del treno, dove nessuno dell’ultima classe è mai arrivato.
Due sono le cose che saltano subito all’occhio: la bravura del cast (sorprendente per me la prova di Chris Evans che smessi i panni di Capitan America dimostra di saper fare anche molto di più) e la forza visiva dell’interno impianto narrativo. Sporcizia, durezza, coraggio, surrealismo e iperrealismo. C’è un pizzico di Dark City (1998) nella decadenza degli ultimi vagoni del treno e nelle gerarchie che comandano il treno, a partire dal surreale Ministro Mason (Tilda Swinton). C’è un pizzico di Matrix (1999) nella diffusione del CW7 (e nella figura di Wilford) solo che invece di oscurare il cielo per fermare le macchine gli aerei precipitano il mondo in una glaciazione. Ma sono sottili richiami che solleticano le memorie cinematografiche riferendosi a un genere al quale ‘Snowpiercer’ ammicca dicendo però la sua. Sia in ‘Dark City’ che in ‘Matrix’ infatti la realtà non era ciò che sembrava. Nel primo una città, nel secondo il mondo intero e in ‘Snowpiercer’ un singolo treno che però, a tutti gli effetti, è ciò che resta del mondo. Il viaggio di Curtis lungo i vagoni è un percorso surreale, persino dantesco, attraverso i gironi di un inferno ghiacciato che l’uomo ha fabbricato e che tanto lotta per mantenere. Ed è un percorso che fa molto riflettere, soprattutto in alcune sue parti. Il treno diventa l’unica risposta a qualsiasi domanda perché all’interno del treno le domande stesse non hanno senso, non possono averne. Lo ‘Snowpiercer’ deve sopravvivere a ogni costo e ciascuno è chiamato a contribuire, più o meno consapevolmente. E’ un percorso visivamente duro, molto duro. Coraggioso come pare solo le produzioni esterne a Hollywood riescono a essere. Non rallenta mai, non frena, non si tira indietro e seppure qua è là si possono trovare alcune veniali sbavature la potenza dell’intero film non è affatto compromessa.
Il finale si spinge ancora più lontano: è quasi biblico e carico di simbologia, o almeno si può prestare a un’interpretazione di questo tipo. Insomma per chi come me aspettava segnali di vita del cinema di genere (che magari non provenissero dal solito Christopher Nolan), un forte messaggio arriva dalla corea in una pellicola contaminata (idea francese, regia coreana, lingua inglese) che abbatte molte barriere mostrando una nuova via ad aspiranti registi di fantascienza.

di Maico Morellini

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