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The Nest – di Roberto De Feo

Tempo di lettura: 4 minuti

Le divinità artistiche hanno un sinistro senso dell’umorismo e, a chi dell’arte si ciba, non resta che prenderne atto. A inizio gennaio, prima che iniziasse la surreale realtà che stiamo vivendo tutti quanti, sono incappato nella lettura di Cecità (J. Saramago) senza sapere di cosa trattasse. Un romanzo il cui motore narrativo è una misteriosa epidemia che colpisce tutti in maniera assolutamente indiscriminata. Poi sono passato a La Città dell’Orca (S. J. Miller), una fantascienza molto diversa da quella di Saramago ma anche qui, sullo sfondo, la presenza del ‘frantumo’, un virus che provoca la progressiva e rapida distruzione mentale (sintetizzo) di chi ne viene infettato. E poi recentissimamente è venuto il turno di The Nest (2019), film horror tutto italiano con l’esordiente regia di Roberto De Feo che per una serie di fatalità non ero riuscito a vedere al cinema.

Nessun virus, questa volta. Ma al centro della pellicola di De Feo c’è l’isolamento, un isolamento che purtroppo stiamo sperimentando. Samuel, il candido e bravo Justin Korovkin, è un adolescente paraplegico che vive isolato nella grande tenuta di famiglia, accudito, controllato e addestrato dalla severa madre Elena (Francesca Cavallin, algida e cinica ma, lo scopriremo, con un cuore a suo modo enorme). Non è mai uscito Samuel, e del mondo esterno non ha quasi notizie. Festeggia il compleanno con pochi, pochissimo amici e parenti (nessuno della sua età) ed è curato dall’inquietante Christian (un
Maurizio Lombardi come sempre strepitoso), medico di famiglia dai modi e dalle movenze sinistre. Nessuno entra ed esce dalla casa fino a quando al nucleo domestico ormai consolidato si aggiunge in circostanze piuttosto misteriose la giovane Denise (Ginevra Francesconi). L’arrivo della ragazza accelererà il collasso di un ecosistema fragile costruito su un mosaico di menzogna.

È proprio la menzogna uno dei temi portanti. Le bugie (a fin di bene?) che Elena propina al figlio un giorno dopo l’altro, le stesse bugie che a volte tengono insieme famiglie per giorni, mesi, anni e che riescono a sopravvivere alle stesse persone che le inventano. La menzogna sottile (a fin di bene?) che lo stesso regista rivolge al pubblico presentando Elena e Christian come affiliati di una qualche setta satanica, come devoti a culti oscuri che forse potrebbero culminare con il sacrificio di Samuel stesso. De Feo decide di maneggiare con cura un tema così complesso e quando mente, non lo fa mai del tutto. La verità è lì. Sempre. A portata di mano. Come accade nel quotidiano, vediamo solo ciò che ci interessa vedere e tutto il resto è derubricato a rumore di fondo. La verità, spesso, si trova nelle zone più periferiche delle nostre percezioni, quelle a cui prestiamo ben poche attenzioni. La verità poi ha un peso, un peso fortissimo. Le menzogne sono leggere, con le menzogne è possibile convivere. Con la verità, a volte, no.

Poi c’è la musica. L’arte, in senso meno stretto. La musica del piano di Samuel: pura, sincera, incapace di mentire. L’unico momento di vera normalità all’interno della grande mistificazione rappresentata dal Nido. La musica di Christian, un dottor Frankenstein di periferia, la rappresentazione di quanto la scienza abbia fallito, sia tra le mura domestiche che fuori. Un simbolo, Christian. Un simbolo del male per il bene e del bene per il male. Un simbolo che come Samuel cerca redenzione, a suo modo, sempre nella musica. Poi la musica che Samuel e Denise ascoltano insieme. Libera, purificatrice. Sincera oltre l’accettabile. Non porta ribellione ma prima che ci venga raccontata la verità, è la musica a spingere Samuel alla sua definitiva consapevolezza. Contro tutti, tutto. Contro le bugie. Anche contro la salvezza.

Poi ci sono gli omaggi. Citazioni. Mai copie carbone priva di anima, tutt’altro. C’è un po’ di Amenàbar e dei suoi The Others, nel lavoro di De Feo. C’è un po’ de Il Giardino Segreto di Frances Hodgson Burnett. Ci sono rimandi nascosti alle fondamenta di un certo tipo di horror. Intelligenti, mai urlati e sempre innestati nel progetto del regista che ha una sua natura, una sua intimità, una sua logica. Tutto conduce a un finale sorprendente, liberatorio e cinico. Drammatico, capace di ridimensionare ciò che pensavamo di sapere, capace di mostrarci come il mondo non sia bianco e nero. Il mondo è grigio, gradazioni di necessità tanto più crudeli quanto più e il mondo stesso a esserlo. È in questo finale che che i tasselli vanno al loro posto. Tutti, uno per uno.

Dopo ‘Oltre il guado‘ di Lorenzo Bianchini, un altro horror italiano di grande livello. Mi permetto di dirlo: finalmente.

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