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JOHN A. LINDQVIST

Tempo di lettura: 10 minuti
Il porto degli spiriti – John A. Lindqvist

Dopo il capolavoro ‘Lasciami Entrare‘ e dopo lo scivolone (a tutt’ora incomprensibile) de ‘L’estate dei morti viventi’, Lindqvist torna alla grande.
E lo fa con trattando, dopo vampiri e zombie, un altro dei mostri classici: lo spettro.
O meglio gli spettri.
Ma, come in ‘Lasciami Entrare, ‘Il Porto degli Spiriti’ non è solo un libro sugli spettri. E’ un libro sull’adolescenza perduta, sulla famiglia, e sulla fine della famiglia. Sulla fiducia, sui piccoli grandi eroi di tutti i giorni e sui piccoli e grandi vigliacchi di tutti giorni.
E’ un libro sull’amore, e sulla perdita dell’amore. E’ un libro sulla paura e sulla malvagità.
E’ anche un libro di favole. Di quei racconti intorno al fuoco, narrati con nostalgia da un anziano parente che, dietro ogni parola, nasconde un pezzo di malinconia per un vita passata. Per un mondo più magico, dove la magia era quella dell’illusionismo ma era anche quella antica e potente della terra (e del mare).
Insomma, è un dipinto magistrale. Di qualcuno che ama il mare, che ama la Svezia, ma che anche la teme per i segreti che può nascondere.
E allora perchè solo quattro stelle? Perchè a volte Lindqvist si intromette troppo nella storia. Pochi punti, due o tre, in cui il narratore si espone, si mostra, e tradisce quel patto tra lettore e scrittore per il quale viene sospesa l’incredulità, grazie al fascino di ciò che viene mostrato.

Lo puoi trovare qui:


Muri di carta – John A. Lindqvist

La mia conoscenza con Lindqvist, lo ammetto, non è avvenuta tra gli scaffali di una libreria ma in un cinema e sotto il migliore del auspici: incrociai la trasposizione in celluloide (2008) del suo ‘Lasciami entrare’ letterario (2004). Era un periodo oscuro per l’horror cinematografico e rimasi del tutto deliziato dall’equilibrio, il coraggio e l’intelligenza della pellicola. Incuriosito, rincorsi allora il romanzo e non fui affatto deluso, anzi: Lidnqvist si confermava un autore illuminato. Da allora lo seguo con una certa devozione e questo ‘Muri di carta’ (scritto tra il 2002 e il 2005) è la sua quarta pubblicazione, questa volta sotto forma di raccolta di racconti.
‘Muri di carta’ raccoglie undici racconti e nel complesso sono tutti di alta, altissima qualità. Come sempre Lindqvist parla della sua Svezia, della sua Stoccolma e del quartiere nel quale è cresciuto, Blackeberg, con quella sincerità crudele di chi ama un luogo, ma ne conosce fin troppo bene i difetti. Al di là dell’impronta horror dei racconti (‘Confine’ e ‘Villaggio in altezza’ sono forse i più marcatamente horrorifici mentre altri esplorano le oscurità dell’animo umano senza indugiare troppo sul sovrannaturale) è coinvolgente l’affresco che l’autore fa del suo paese. Pensiamo, per abitudine, che Svezia, Norvegia o comunque tutti i paesi nordici siano un porto felice dal quale trarre ispirazione mentre la penna di Lindqvist, spietata e sincera, tratteggia una società fatta di ombre e di luci, triste e disincantata, che appare molto lontano dalla bolla di perfezione che noi per primi gli abbiamo costruito attorno. I suoi personaggi si muovono proprio in quelle zone oscure che prosperano ai margini della società scandinava e i sentimenti che li animano sanno però anche essere forti e positivi in un modo incredibile. La vita, prima di tutto, come testimonia il suo ‘La soluzione finale’, seguito narrativo de ‘L’estate dei morti viventi’ (2005), la vita anche a costo della morte. La vita come antidoto alla malvagità e a forze sovrannaturali che vorrebbero sovvertire l’ordine della cose.
C’è grande tristezza nelle opere di Lindqvist (proprio lui che nasce come cabarettista), ma anche un profondo coraggio e un grande amore per la vita e per la Svezia.
Quando un autore scrive di cose che ama e che odia, che conosce e che ammira, attraverso la penna scorrono emozioni che arrivano dirette al cuore di chi legge. E’ anche molto interessante notare come alcuni suoi racconti inizino a prendere in considerazione molte delle tematiche che tratterà ne ‘Il Porto degli spiriti’: troll, spiriti, morte e amore oltre i normali confini della vita. E’ raro poter percorrere a ritroso il cammino narrativo di un autore, ma è decisamente molto interessante.
L’unica nota negativa sono un paio di racconti, comunque piuttosto brevi, che non hanno l’eleganza e l’equilibrio degli altri.

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Una piccola stella – John A. Linqvist

Per chi come me ha amato ‘Lasciami entrare‘ (2004), ha storto il naso con ‘L’estate dei morti viventi’ (2005) e si è di nuovo emozionato per ‘Il Porto degli spiriti’ (2008) e ‘Muri di carta‘ (2012) ogni nuova opera di Lindqvist è accompagnata da un misto di timore e aspettativa.
Per certi versi ‘Una piccola stella’ (2013) è la più ambigua delle sue produzioni. Ambientato nella Svezia sofferta e sofferente tanto amata (e odiata) da Lindqvist racconta del ritrovamento di una neonata, la piccola Teres, che ha una singolare capacità: la sua voce è musica pura, in grado di emettere le note più perfette. La piccola viene rinchiusa in uno scantinato da una coppia di musicisti in declino con l’intento di allevarla segregata dal mondo e protetta dall’inquinamento che la parola potrebbe causare alla sua purezza musicale.
Teres però, dopo una serie di eventi drammatici e dall’impronta decisamente horror, uscirà dal guscio protettivo nel quale era stata rinchiusa e verrà fatta conoscere al mondo grazie a un talent show musicale. Così Teres conoscerà Teresa, una bambina sola e infelice attratta dalla sua strana purezza. E conoscerà altre ragazzine, vittime di una Svezia non all’altezza delle nuove generazioni e insieme a loro cercherà le risposte che gli adulti non sono in grado di dare.
A differenza degli alti romanzi (tolto ‘L’estate dei morti viventi’ che resta a mio avviso il modo con cui Lindqvist ha voluto affrontare il suo demone interiore legato alla morte) ‘Una piccola stella’ ha situazioni e meccanismi più pretestuosi e meno precisi del solito. Questo credo sia da ricercare nella evidente critica sociale che Lindqvist mette in campo: i suoi bersagli principali sono il mondo della musica e i talent show decidati alle giovani promesse del pop. L’intenzione è chiara e ben sviluppata ma se ‘Una piccola stella’ si limitasse a questo sarebbe un romanzo interessante con però poco valore aggiunto.
‘Una piccola stella’ invece è anche un romanzo di crescita, qualcosa che si può identificare come il negativo fotografico de ‘Il Corpo’, racconto scritto da Stephen King e contenuto in Stagioni Diverse (1982) (da cui hanno tratto il film ‘Stand By Me’, 1986). Le tematiche portanti sono molto simili. Ci sono adolescenti che fuggono da situazioni famigliari complesse e c’è la morte. C’è la catarsi che l’incontro di queste due entità così diverse, giovinezza e morte, crea e gli imprevedibili esiti ai quali può dare origine. Il viaggio che Teresa e Teres compiono non è fisico, come quello descritto da King, ma è del tutto spirituale e passa attraverso stati mentali tremendi e angoscianti. La psicosi di Teresa, il distacco dal mondo che solo Teres riuscirà a guarire è molto simbolico e potente. Così come il rituale della morte e della rinascita a cui tutte le ragazze attratte da Teres, il branco, sono sottoposte.
Come dicevo la narrazione, se spogliata dagli obiettivi che Lindqvist si è posto, non è impeccabile. In certi punti si ripete e la simbologia di alcuni personaggi è, per quanto efficace, forzata (il discografico Hansen è funzionale ma non così credibile come dovrebbe). C’è però un manto di inquietudine sempre costante che avvolge tutto il romanzo e che trasmette la sensazione di un disastro imminente capace di tenere alto il ritmo. Da questo non è possibile affrancarsi ed è uno dei punti di forza del romanzo. Se anche alcue cose scricchiolano l’ansia delle ragazzine si trasmette al lettore facendole diventare parte del ‘branco’ creato da Lindqvist.
Per concludere ‘Una piccola stella’ non ha la terribile eleganza di ‘Lasciami entrare’ e nemmeno la purezza del macabro rapporto tra Oskar ed Eli ma è comunque un altro bel tassello che arricchisce il mosaico della Svezia descritta da Lindqvist. Perduta e alla ricerca di sé stessa.

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Forse non il suo libro migliore, e forse un’idea e un impianto di base persino troppo elaborati per quello che voleva dire, ma Lindqvist è e resta una delle penne più oniriche, sincere e inquietanti del nostro tempo.
Questo romanzo ha tanti e diversi livelli di lettura e ti resta dentro: ti costringe a ripensarci, a scovare sensi nascosti e significati profondi.
Le emozioni possono essere vampiri? Posso drenare emotività e risorse? L’amore è l’unica risposta? L’accettazione può portare alla salvezza.
Lindqvist costruisce un fenomenale caleidoscopio nel quale forse resta intrappolato anche lui. L’autore sta facendo un percorso di crescita straordinario aggiungendo qualcosa in più a ogni romanzo che scrive per questo consiglio di leggere, in ordine, tutte le sue opere. Sono curioso di sapere dove ci porterà la prossima volta.

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L’altro posto – John A. Lindqvist

Se si capisce tutto di una persona proprio non si riesce a giudicarla.

John A. Lindqvist nel suo romanzo “L’altro posto” intreccia memorie, sensazioni ed emozioni dei suoi personaggi in una maglia così stretta da rendere impensabile una cosa che a noi, in questo presente a volte così tossico, viene anche troppo naturale. Giudicare. Giudicare sempre e comunque. Giudicare sulla base della propria esperienza personale, o in base a un sentito dire, o sull’idea talvolta sbagliata (e spesso sovradimensionata) che si ha di sé.

L’empatia sarebbe il naturale antidoto al veleno del giudizio ma si tratta di una sostanza difficile da sintetizzare. Di più. Si tratta di un estratto che non ha un sapore dolce, é una sostanza psicotropa che non rilascia le endorfine tipiche di un giudizio affrettato ma che anzi una volta inoculata lascia più dubbi che certezze.

Assumere empatia, oggi, è un azzardo. Perché agli occhi di un sistema emotivo schematico come il nostro la comprensione è l’anticamera della debolezza, comprendere vuol dire non avere risposte facili, giudizi trancianti, verità da propinare in duecento caratteri.

L’empatia è uno slow-food emotivo che richiede di sedersi a un tavolo, di guardarsi negli occhi, di bere dallo stesso bicchiere, di assaggiare i piatti degli altri e di alzarsi senza sapere, a volte, cosa si è mangiato davvero.

Lo puoi trovare qui:

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