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Halloween – di David Gordon Green

Tempo di lettura: 5 minuti

Le grandi icone horror degli anni ’80 vanno maneggiate con cura (Michael Myers in realtà deve i suoi natali cinematografici al 1978) e i tentativi di riportarle al presente hanno spesso dato frutti amari, qualche volta un pelo più agrodolci (penso all’Halloween di Rob Zombie), ma nel complesso nemmeno vicini agli originali. I motivi sono disparati, alcuni dei quali legati anche al momento storico, alla magia degli anni ’80 che non è facile replicare, alla voglia di crederci che c’era in quel periodo unita al desiderio di sperimentare con sincerità.
Ciò detto, Halloween 2018 è il miglior omaggio che si potesse fare, quarant’anni dopo, a Michael Myers, a Laurie Strode (Jamie Lee Curtis) e alla memoria ferita Haddonfield.
La trama, se riassunta ai minimi termini, è lineare e rispettosa così come è lineare e rispettosa la regia di Gordon Green: quarant’anni dopo quel fatale 31 ottobre 1978, la vigilia di Halloween, Mike Myers evade dal manicomio criminale di Smith’s Grove e cerca di raggiungere la sorella Laurie Strode e la sua famiglia per completare la carneficina che non era riuscito a concludere otto lustri prima.
Ma in realtà, grattando sotto questa superficie in apparenza poco fantasiosa, ci sono davvero tante idee. La più centrale, la vera cifra del film, risponde a una semplice domanda: cosa accade alle persone normali che si trovano a fronteggiare il male incarnato (concetto rafforzato dalla voce del dottor Loomis che, da un’audiocassetta, sentenzia la necessaria morte di Michael)? Da un lato abbiamo la coppia di intraprendenti podcaster (in questo Green dimostra di conoscere la contemporaneità) Aaron Korey (Jefferson Hall) e Dana Haines (Rhian Rees) che cercano di normalizzare l’anomalia rappresentata da Mike, di trattarlo come un normale serial killer.
È attraverso di loro che Gordon Green ci offre il suo specchio deformante: Aaron e Dana sono interessati a capire come la furia di Michaeal ha modificato le vite di quelli che lo hanno incontrato, in un modo o nell’altro.
Tutto intorno ad Aaron e Dana che rappresentano alla perfezione la normalità contro l’orrore si muovono personaggi diversi che rappresentano concetti diversi.
C’è Laurie la cui vita è stata plasmata dal terrore e dell’odio di e per Michael: vive come una reclusa, ha rinunciato agli affetti in attesa nella notte delle streghe che la porterà a confrontarsi di nuovo con il Male. Gordon Green rispetta i canoni dell’horror dimostrando un timore misto a riverenza ma sul finale compie una bella operazione di ribaltamento di ruoli sempre usando il suo specchio deformante. Un’inversione che già era stata anticipata dal brillante dottor Ranbir Sartain (Haluk Bilginer) e lo fa anche da un punto di vista estetico strizzando l’occhio ai tanti amanti della saga (Michael e Laurie si invertono di ruolo nella splendida scena di lui che guarda il corpo di lei sull’erba).

Copyright: Blumhouse Productions, Miramax Films, Trancas International Films

C’è la figlia di Laurie, Karen (Judy Greer), addestrata da combattente in una non-infanzia fatta di armi, trappole, paranoia e persecuzione. Una figlia strappata alla madre che prova a dimenticare ma che non può e non deve farlo.
C’è il dottor Sartain, allievo di Loomis, psichiatra che ha cercato per decenni di penetrare il muro di silenzio di Michael tanto da desiderare anche solo una sua parola. Cosa succede a una mente brillante che resta per tanto tempo vicino al Male? Come Icaro rischia di bruciarsi le ali indugiando così a lungo accanto al fuoco nero oppure può trovare la forza di ribellarsi a una profezia che sembra ineluttabile?
C’è la giovane Allyson (Andi Matichak), nipote di Laurie, la cui vita è segnata solo in parte della lunga ombra di Michael. Ma in qualche modo il marchio tocca anche lei e tre generazioni si trovano a dover lottare contro un male così antico da non avere volto.
C’è lo sceriffo Hawkins (Will Patton), pronto a fronteggiare ciò che Mike rappresenta ma non in grado di comprendere come i tentacoli del Male (in una sorta di riproduzione umana della Hawkins di Stranger Things, curioso gioco di parole) hanno attecchito dove meno lo si credeva possibile.

Gordon Green è molto bravo nell’annientare la personalità di Michael in favore di ciò che rappresenta e la prima mezz’ora del film è davvero di alta, altissima qualità. Poi l’eredita di un franchise lungo decenni si fa sentire riconducendo il film, per tutto il blocco centrale, ai normali canoni dello slasher. In un’occasione purtroppo il regista frena la mano, manca di coraggio indebolendo l’aura malvagia di Mike cercando forse di restituirgli quella personalità di cui non ha bisogno. Pazienza. Un peccato trascurabile.
Halloween è ben scritto, anche le semplici apparizioni hanno una loro dignità, una loro storia, un loro vissuto e questo rende la distruttività di Michael ancora più feroce e credibile. Il breve dialogo tra i due poliziotti, il confronto tra padre e figlio durante la fuga di Mike.
Perciò è un film perfetto? No, non lo è. Ma ha idee, ha coraggio (non quanto avrebbe dovuto e soprattutto nel finale manca una mancanza, se mi si passa il gioco di parole) e può far molto bene a tutto il cinema horror.
Restituisce anche, in parte, dignità alla categoria dannata dei remake/reboot/sequel/prequel: si possono fare. Basta farli bene.

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