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H.G. WELLS

Tempo di lettura: 6 minuti
La macchina del tempo – H.G. Wells

In colpevole ritardo ho recuperato uno di questi grandi classici della fantascienza e, come mi era accaduto per L’Isola del Dottor Moreau, sono rimasto semplicemente folgorato dalle mente di Wells. Dalla sua brillantezza, dal suo acume e dalla sua capacità di andar ben oltre la semplice fantascienza.
La storia del romanzo è risaputa: il Viaggiatore del Tempo ospita un gruppo di amici e confida loro di aver costruito una piccola macchina che permette di viaggiare nel tempo. Le prime pagine del libro sono insaporite da una lucida disamina scientifico-filosofica sul tempo, sulle dimensioni dello spazio e sul perché spostarsi tra passato e presente non sia una missione così impossible.
Poi inizia il racconto del Viaggiatore: un lungo e appassionato monologo del personaggio che parla ai suoi commensali. Racconta al lettore del viaggio in un futuro remoto, oltre l’anno ottocentomila, un tempo decadente in cui gli uomini sembrano aver perso ogni loro brillantezza. Sembra aver smarrito il ‘ben dell’intelletto’ dantesco e vivono senza alcuno scopo se non quello di amoreggiare, nutristi e trascorrere le giornate sfuggendo la notte. Ed è proprio durante la notte che il Viaggiatore incontra per la prima volta i Morlock (Morlocchi, nella traduzione italiana), creature sotterranee che accudiscono gli Eloi fornendo loro cibo e vestiti. Salvo, di tanto in tanto, rapirli per usarli come loro sostentamento. Cannibalismo feroce, senza alcun giudizio morale. Il Viaggiatore racconta poi della sua fuga e dell’estremo viaggio verso un futuro ancora più avanzato, attraverso paesaggi tra l’incubo e il sogno.
La cosa sorprendente di Wells è la lucidità con la quale analizza la nuova società da lui stesso teorizzata. La decadenza fisica e mentale degli uomini perché agiati in un modo ormai privo di pericoli, che controllano e dominano. La perdita della parola per la mancanza di necessità, una sorta di involuzione darwiniana che favorisce il prosperare del più debole. E al tempo stesso i Morlock, riflesso impietoso della classe operaia da sempre relegata in un mondo meno brillante, una servitù controllata, una separazione fisica oltre che intellettuale. Un quadro incredibilmente raffinato per un libro scritto nel 1895.
Pensare a un uomo come Wells, abituato a vivere in un tempo in cui le rivoluzioni tecnologiche correvano più veloci di quanto potesse fare la mente di un comune essere umano. Pensare a tutto ciò che stava accadendo intorno a lui, e stupirsi di come le sue intuizioni non si siano mai lasciate sviare dalla luce della scienza e della tecnica, ma abbiano invece scavato e sezionato l’animo umano nelle sue parti più oscure e complesse. Questa è la cifra narrativa impagabile che riconosco a una mente unica come quella di H.G. Wells e mi stupisco ogni volta di come sia stato capace di proiettarsi oltre tutto ciò che lo circondava superando, con la sua fantascienza, anche le più evolute teorie filosofiche.
Vi lascio con uno dei suoi pensieri conclusi, certo che vi stupirete quanto me nel lettere queste sue parole. Scritte, non dimentichiamolo, nel 1895.

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L’isola del dottor Moreau – H.G. Wells

Le idee di Herbert George Wells sono talmente intrise di genialità da farmi dimenticare che si tratta di un autore vissuto centocinquanta anni fa in quello che a tutti gli effetti era un mondo completamente diverso dal nostro.
Il romanzo ‘L’Isola del Dottor Moreau’ non fa eccezione. Scritto nel 1895 da un Wells trentenne e pubblicato nel 1896 potrebbe essere considerato un antenato dei mokumentary (il ‘Dracula’ di Stoker verrà scritto solo un anno dopo) che tanto impazzano nelle sale cinematografiche. Partendo da presunti eventi realmente accaduti, il protagonista ci conduce nel cuore della sua avventura.
Edward Prendick, la voce narrante del romanzo, è vittima di un naufragio e dopo alcune vicissitudini riesce a raggiungere di nuovo la terra ferma: viene infatti salvato dal misterioso Montgomery che lo conduce su una sperduta isola del pacifico. Qui incontro il Dottor Moreau che svolge esperimenti in bilico tra il genio e la follia e apprende il fine ultime del geniale medico rinnegato: attraverso il dolore e la chirurgia Moreau intende elevare gli animali trasformandoli, a tutti gli effetti, in esseri umanoidi in grado di pensare e parlare. La natura bestiale delle creature, però, non può essere del tutto soffocata e ben preso l’Isola conoscerà una drammatica spirale di violenza.
Wells incentra la narrazione su due temi principali: il dolore come strumento scientifico ed evolutivo (durante i suoi studi Wells frequentò accaniti sostenitori del darwinismo) e la volontà (oltre che la capacità) di creare uomini partendo dagli animali. A parte l’attualità delle tematiche affrontate e lo spunto che questi approcci narrativi hanno dato ad autori contemporanei (George R.R. Martin ha fatto del dolore un catalizzatore fondamentale per la metamorfosi emotiva dei suoi personaggi) c’è una cosa più di tutte che mi ha colpito nel romanzo di Wells.
Prendick, abbandonata l’isola, torna nella società civile dalla quale proveniva. La stessa società che aveva generato Moreau e  ripudiandolo poi per la crudezza delle sue teorie. Ma non è più in grado di stare in mezzo alle persone perché, negli sguardi delle persone, vede la stessa bestialità latente che Moreau aveva cancellato in modo temporaneo attraverso i suoi esperimenti.
Moreau, che era un semplice uomo, si era improvvisato Dio scalpellando la natura grezza degli animali come fosse pietra nel tentativo di allontanarla dal suo stato animale. E vi era riuscito, seppure momentaneamente: umanoidi in grado di parlare e di ragionare seguendo la Legge che lo stesso Moreau imponeva. Prendick, tornato a Londra, vede in tutti coloro che lo circondano versioni evolute del lavoro di Moreau. Come se una mano più salda, più capace, quella di un vero Dio, fosse stata in grado di rifinire il lavoro che il medico pazzo aveva improvvisato. Eppure il protagonista, ed è questo il dilemma che lo costringe ad abbandonare la vita cittadina rifugiandosi in un isolamento provinciale, non può fare a meno di chiedersi se anche questa ‘trasformazione’ non sia momentanea come era stato per i costrutti di Moreau. Se nonostante tutto la natura bestiale dell’uomo, che Prendick vede negli sguardi dei suoi simili, non sia destinata a riemergere scatenando la stessa violenza brutale vissuta sull’isola.
La lucidità di Wells, la sua capacità di affrontare in un romanzo fantascientifico tematiche così alte in modo tanto efficace, mi ha ancora una volta sorpreso.

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