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PARIDE, MIO NONNO

Tempo di lettura: 12 minuti

Il 31 ottobre del 2020, a 98 anni, mio nonno Paride ci ha lasciato. Non parlo mai di cose private, non parlo mai della mia famiglia, ma poi è successa una cosa. In paese hanno deciso di raccontare e raccogliere in un libro la storia degli anziani, delle loro vite e delle loro avventure: hanno chiesto a me – e alla mia famiglia – di raccontare la storia di mio nonno. Così abbiamo fatto.

La vita delle persone buone non la leggi nei libri di storia. La trovi nella memoria di che la ha conosciute, nei ricordi di chi ha fatto un pezzo di strada insieme a loro, nei gesti che ti restano addosso come vestiti consumati ma comodi di cui non puoi fare a meno. Vestiti che sanno di casa, che sanno di radici, che sanno di famiglia.

Paride Gherardi era questo. Un uomo buono. L’uomo più buono che io abbia mai conosciuto. 

Paride veniva da una famiglia numerosa secondo i canoni moderni, ma non troppo numerosa se pensiamo a com’era il mondo dei primi del ‘900.

Suo padre Gerolamo era nato nel 1887 e sua madre Clotilde nel 1888. Più di cento anni fa, quando tante cose erano diverse, quanto l’Italia era giovane, quando si invecchiava più in fretta ma poi si restava adulti per tanto tempo.

Paride è stato l’ultimogenito di Gerolamo e Clotilde e la sua nascita è arrivata a riempire il vuoto lasciato da una altro Paride, nato nel 1916 e morto nel 1921 di spagnola, o difterite, o entrambe le cose.

Il 28 maggio del 1922, un anno dopo la morte del fratello maggiore mai conosciuto, nasce mio nonno e a lui viene dato lo stesso nome. Paride. Nel silenzio e nella dignità di un dolore di cui a quei tempi non si parlava, di una sofferenza che nella vita di campagna aveva poco tempo e poco spazio, la morte di un figlio si accettava e si superava così. 

E Gerolamo e Clotilde hanno accettato anche la scomparsa di un altro figlio, Walter. Morto nel 1932 – a ventuno anni – di polmonite (presa a militare, morto a casa). Quel Walter che sarà poi il nome del figlio maschio di mio nonno nel rinnovarsi di un rito semplice, pulito e sincero.

Perciò Paride cresce con due sorelle, Oriele (nata nel 1912) e Zora (nata nel 1914). Cresce in una famiglia contadina intorno alla quale orbitavano – come sempre accadeva a quei tempi – un numero impressionante di zii, cugini e poi ancora zii e poi ancora altri cugini. Perciò c’era Vittorio, zio da parte di madre, che abitava con loro. E lo zio Dorino – sempre da parte di madre – che si era poi sposato a Massenzatico. Due chilometri in linea d’aria ma a quei tempi era come trovar moglie all’estero. O lo zio Guido, da parte di Gerolamo, il cui figlio si trasferirà poi a Piacenza che era come andare dall’altra parte del mondo.

I Gherardi avevano un soprannome: Bisar, li chiamavano. Un soprannome che forse aveva a che fare con la parola bizzarro, un bizzarro magari dettato da comportamenti strani, di quelle stranezze che si guadagnano con poca fatica quando il mondo gira tutto intorno alla campagna e alla famiglia. O forse un bizzarro dettato da una vena creativa unita a una gran voglia di fare che di certo Paride Gherardi ha sempre avuto.

E insomma, Paride cresce. Con due sorelle maggiori. Cresce in un mondo che oggi percepiamo tanto lontano, tanto diverso quasi da non riconoscerlo. Un mondo con carretti trascinati dai buoi, con viaggi improbabili tra le campagne nebbiose, su sentieri che qualche volta – come raccontava Paride – ti costringevano a tornare a casa perché la lanterna sul carretto non era capace nemmeno di illuminare l’argine del fosso.

Un mondo dove la sera i giovani attraversavano i campi a piedi per andare a Massenzatico a ballare.

E in quel mondo, Paride conosce Noemi Bedogni. Detta Duccia. La donna che sarà la sua compagna di vita. La conosce prima che sull’Italia e sul mondo intero si schianti la Seconda Guerra Mondiale. Sarà la Guerra la prima prova che affronteranno e che supereranno. 

La Guerra.

Saranno i ricordi di guerra uno dei doni più preziosi che Paride farà a tutti i noi. 

Ricordi di un Guerra per lui cominciata quando stava facendo il servizio militare alla caserma Zucchi, a Reggio. Ricordi che iniziano quando un tenente amico di Gerolamo, suo padre, consiglia  a Paride di non dare la patente perché “quelli che sanno guidare li mandano al fronte russo”. E Paride lo segue, quel consiglio. Paride non viene mandato in Russia – col senno di poi sarà una delle tante coincidenze fortunate di quegli anni -, ma non riesce comunque a evitarla, quella Seconda Guerra Mondiale.

Parte per la Francia insieme ai tedeschi – alleati dell’Italia in quel momento – e nel settembre del 1943 è nei pressi di Nizza quando Badoglio annuncia l’armistizio. È difficile, se non impossibile, immaginare per noi cosa abbia voluto dire quel periodo.

Paride, come tanti altri, aveva poco più di vent’anni. Come tanti altri era stato trascinato in una Guerra di cui capiva poco e con gli altri italiani del suo gruppo condivideva una cosa più di tutte: la voglia di tornare a casa. Perciò dopo l’annuncio dell’armistizio Paride sale su un camion insieme ad alcuni compagni e insieme a loro inizia il viaggio per tornare in Italia. 

Salgono su quel mezzo militare e decidono che per loro la guerra può e deve finire lì ma mentre stanno percorrendo una piccola strada vengono fermati da un posto di blocco tedesco. Adesso però tedeschi e italiani non sono più alleati.

Perciò vengono fatti prigionieri e da prigionieri risalgono fino alla Normandia attraversando una Rouen già bombardata dagli alleati. Altro colpo di fortuna, se così possiamo chiamarlo: arrivare a bombardamento finito.

Ed è lì che Paride insieme ad altri cinque italiani tenta la fuga: scappa da un esercito tedesco ormai allo sbando. Scappa e da prigioniero dei tedeschi finisce di nuovo prigioniero dei partigiani francesi che consegnano lui e i suoi compagni agli alleati. Arriverà in Inghilterra e lì, mentre Londra viene bombardata dalle V2 di von Braun, trascorrerrà gli ultimi anni della Guerra evitando le ombre più oscure del conflitto mondiale.

Tornerà in Italia nel 1946 portando con sé una patente inglese, esperienze incredibili e tanti, tanti ricordi.

Ricordi di quegli anni trascorsi in giro per l’Europa agli ordini dei nazisti. Ricordi della prigionia dorata in Inghilterra, ricordi del tè con il latte, ricordi dell’orologio venduto per una tavoletta di cioccolata, ricordi delle guardie tedesche che piantonavano le bucce di patata perché la fame avrebbe spinto tutti a mangiare anche quelle.

Ricordi che Paride ha sempre condiviso con tutti noi, con quel suo modo riservato, con la voglia di raccontare senza però essere mai invadente. Ricordi dei suoi vent’anni, dell’incoscienza dei sabotaggi ai danni dei nazisti, del commilitone di Novellara che aveva buttato solfato di ferro nel magazzino delle biciclette per renderle inservibili, ricordi delle SS, dello sbarco a Napoli dove chi era stato prigioniero veniva trattato da disertore, del ritorno a casa, di amicizie che non hai mai dimenticato e che cercherà di ritrovare molti anni più tardi rivelando a tutti che dietro a un animo mite si sono sempre nascoste emozioni molto profonde. Buone e sincere.

Perciò Paride torna dalla guerra e ad aspettarlo c’è Duccia. I due si sposano il 30 dicembre del 1950 e meno di un anno dopo, il 16 ottobre, nasce Elisa. Mia madre.

E  così inizia una nuova vita nella casa di via Spagni. Una vita che ha il sapore della famiglia, una famiglia che si allargherà il 26 agosto del 1958 quando nascerà Walter, mio zio.

È una vita che subito sembra riprendere le orme di quella passata, una vita che parla la lingua dei campi e degli animali. Una vita contadina. Diventa un esperto, nel suo settore. Impara tecniche di vitificazione all’avanguardia, costruisce trappole per talpe, il garage di casa è un regno di invenzioni, di idee, di voglia di lavorare.

Ma nella vita ci sono anche le occasioni, le opportunità. Una di queste arriva quasi subito. La sorella di Paride, Oriele, ha sposato un uomo vulcanico, creativo, un inventore: quello che io conoscerò per sentito dire come “zio” Cucco Braglia. Una di quelle figure che contribuirà alla creazione del tessuto produttivo emiliano fatto di metalmeccanica, di imprenditoria, di idee e di tanta voglia di lavorare.

Paride, che è sempre stato un grande lavoratore e che ha sempre dimostrato di avere mani capaci e una mente brillante, andrà a lavorare da Braglia e lì comincerà una sorta di terza vita, quella che lo accompagnerà per un bel pezzo. Una vita da officina, dove il rispetto ce lo si guadagna, una vita lavorativa che resterà legata a doppia mandata con quella famigliare perché in Braglia, Paride lavorerà con i nipoti (uno di questi, il primogenito di Oriele, si chiamerà Walter, sempre in onore del fratello perduto).

Scorre il tempo. I figli crescono e nel 1973 e nel 1977 arrivano i nipoti. Mio fratello Jules e io.

E la casa di via Spagni è per mio fratello e me una finestra su un tempo che non abbiamo mai vissuto ma che lì ci viene raccontato. Che ci viene mostrato. La casa di Paride e di Duccia non è più quella di una volta – ne hanno costruita una nuova sul loro terreno – ma intorno restano tracce dei tempi passati.

E Paride ci accoglie e ci racconta a modo suo quella vita andata. Ci mostra la raccolta del fieno, la vendemmia, costruisce attrezzi agricoli su misura per me e mio fratello, piccole vanghe, piccole zappe, piccoli badili. E poi canne da pesca di fortuna, e poi insieme a raccogliere vermi da usare come esca. Estati e pomeriggi tra conigli, tra qualche gallina, tra i gatti selvatici a giocare con le pistole di plastica di Braglia che Paride e Duccia continuavano a montare a casa. 

E le tradizioni come il Lambrusco nel caffè, e le braci accese tenute tra le mani e noi che ci stupiamo.

Arrivano anche i ricordi di Paride. Ma aspetta la nostra curiosità prima di mostrarceli: perché Paride Gherardi non si è mai imposto. Non hai mai parlato sopra gli altri (anche se Duccia a tal proposito avrebbe avuto qualcosa da dire), non ha quasi mai alzato la voce. Certo, si è arrabbiato. Ma arrabbiarsi era una cosa che non gli veniva naturale e non gli piaceva. Non gli è mai piaciuto.  

Perciò quando siamo curiosi, gli chiediamo della Guerra. E lì racconta. Racconta con una dovizia di dettagli incredibile. Nomi e cognomi. Eventi. Episodi. Frammenti di una vita passata che però Paride si è sempre portato dentro e che è felice di poterci mostrare.

Sono ore preziose, quelle passate ad ascoltarlo. 

Poi arriva il dolore. All’improvviso. Dopo ben più di mezzo secolo passato insieme, Duccia se ne va. Hanno vissuto una vita felice e hanno trasmesso quella solida felicità a tutti. 

Ma la vita reclama la nonna Duccia per prima e tutti noi ci preoccupiamo. Perché il nonno Paride è sempre stato un po’ in disparte. Tra i due l’anima guerriera era quella di Duccia. O almeno così credevamo. 

A dimostrare che un uomo buono ha più risorse di quanto non ci sia dato immaginare, Paride conserva il suo grande dolore ma ci stupisce. Ci stupisce perché combatte, perché resiste. Perché attinge alla sua immensa memoria, a tutto ciò che si era portato dentro, a tutti gli anni passati con Duccia. E questo resistere era anche per lei, per quella compagna di vita le cui fotografie lo facevano sempre sorridere d’amore perché “l’era bela giota”.

Trova un nuovo equilibrio. Cerca gli amici di guerra, si stupisce quando qualcuno di loro non è più tanto in forma (“Ma nonno, sono passati settant’anni, non sono tutti come te”), costruisce una nuova routine incentrata su ciò che è ed è sempre stato: un uomo buono. Un uomo che si avvicina al tempo degli altri in punta di piedi, che vuole essere autonomo perché lo è sempre stato. Che vuole cucinare, che vuole apparecchiare, che vuole essere utile. Sempre. 

Che si preoccupa di non fare torti, che non concepisce di avere debiti, che non vuole lasciare niente di storto dietro di lui. Un uomo che accetta i cambiamenti difficili, che accetta di pagare il prezzo che una vita lunga reclama. Un uomo che legge il giornale tutti i giorni, anche a novantasette anni. Un uomo che quando pensa al mondo in cui viviamo, quando rivolge la sua attenzione all’attualità, scuote la testa perché vede tanta cattiveria. 

Perché: “Queste persone che lasciano casa loro per venire qui sono trattate peggio di come eravamo trattati noi da prigionieri. E allora c’era la guerra”.

Un uomo che si commuove quando legge un articolo che parla del pensionamento del figlio, un uomo che accetta i cambiamenti di una vita sempre più lunga – e sempre più faticosa – facendoli pesare il meno possibile. 

Un uomo che sì, si sente anche solo perché tutta la sua vita da giovane, tutti i compagni di quegli anni, lo hanno lasciato con i ricordi.

Un uomo che se ne va in punta di piedi il 31 ottobre del 2020, a 98 anni. Paride Gherardi. Un uomo buono. L’uomo più buono che io abbia mai conosciuto. 

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