Skip to content Skip to footer

NOPE – DI JORDAN PEELE

Tempo di lettura: 5 minuti

I film di Peele, al netto del sotto strato comico e di una leggerezza di fondo che sono parte del DNA del regista (Peele tra le altre cose è un comico), molto si prestano all’interpretazione. Delle sue tre fatiche Scappa – Get Out è la pellicola più lineare, quella che catalizza meno speculazioni, Noi (Us) quella più apertamente critica mentre Nope di certo è quella più criptica, complice un audace melting pot di generi, canoni e di stili.

Il motore narrativo portante è talmente abusato da essermi arrivato però come un sorso di acqua fresca nella Pianura Padana, a luglio: nei pressi di uno sperduto ranch iniziano ad accadere strane cose. Cali di corrente elettrica, oggetti che piovono dal cielo, sparizione di animali e strane forme che si muovono tra le nuvole. Così Otis J. Haywood (interpretato dall’attore feticcio di Peele, Daniel Kaluuya) e la sorella Emeral (Kate Palmer) decido di trasformare questa bizzarria in un’occasione di riscatto per loro, per il ranch e per l’intera dinastia degli Haywood. Quindi Nope è un film sugli alieni? Quanto lo era il Signs di M. Night Shyamalan, cioè ben poco. Andiamo con ordine.

Getterò su di te un’abominevole lordura, ti umilierò e ti esporrò al ludibrio.

LIBRO DI NAUM 3:6

Citazione d’apertura della pellicola. Peele ci dice in modo chiaro che cosa sta per farci vedere: lordura, umiliazione e ludibrio. E queste tre cose nella società contemporanea hanno un denominatore comune: spettacolarizzazione proto e post televisiva. Non è un caso che OJ Haywood e la sorella Em per sbarcare il lunario orbitino intorno all’industria televisivo cinematografica, non è un caso che umilino la loro discendenza e i loro meravigliosi cavalli prestandoli al jet set dove godono di ben poco rispetto.

Non è nemmeno un caso che Ricky ‘Jupe’ Park (Steven Yeun), ex bambino prodigio delle sitcom anni ottanta, abbia trasformato l’orrore a cui è sopravvissuto in una sorta di parco divertimenti dove gli amanti del gore possono trascorrere intere nottate. E non è un caso che Ricky continui a farlo, mai sazio, nella grottesca imitazione di un successo che non tornerà mai più. Con tutto quello che ne deriva. Menzione d’onore per tutta la sequenza di Gordy che Peele ci mostra in due tempi e che è da manuale.

Non meritiamo l’impossibile

ANTLERS HOLST

Chi è Antler Host (un crepuscolare Michale Wincott)? Un regista talmente capace annoiate e tremendamente capace. Lavora per la televisione ma il suo cuore, la sua mente e le sua anima sono altrove. Vorrebbe catturare il momento dei momenti, vorrebbe documentare l’evento grandioso, vorrebbe andare oltre i lustrini televisivi. È ossessionato dalla natura, dai predatori, dagli animali. Ma sa che ‘non meritiamo l’impossibile‘. Perché l’impossibile, ancora prima di manifestarsi, viene scomposto e banalizzato nelle sue componenti più televisive (‘televisive’ usato nell’accezione peggiore del termine). Perché è questo che facciamo. Host lo sa. Perciò non lo meritiamo. Perciò non ce lo meritiamo. E Host ce lo ripeterà, perso nel suo ipnotico mantra “Un occhio, un corno, vola e mangia uomini viola”.

Poi c’è l’uomo della strada. Il tecnico informatico da grandi magazzini Angel Torres (Brandon Perea) che frequenta i bassifondi della ‘televisione’. Installa impianti di sicurezza e saranno suoi gli occhi digitali con i quali OJ ed Em tenteranno l’impossibile. Di nuovo, c’è una telecamera a frapporsi tra gli esseri umani e una realtà che non dovrebbe essere esposta al publico ludibrio.

Copyright: Jordan Peele, Ian Cooper

E Peele? Peele prende questa lucida critica, la mischia con un terzo di western (ci sono cavalli e cawboy post-litteram), un terzo di fantascienza vecchio stile, con la sua comicità a volte un pelo spicciola e con una serie di trovate ben più che interessanti capaci di dare un carattere molto forte al bizzarro oggetto che infesta i cieli del Ranch di OJ. Aggiunge anche altre cose. Sperimenta, mette in pratica le cose che gli sono piaciute (c’è senza dubbio un omaggio allo Shyamalan prima maniera, a lo Spielberg de La Guerra dei Mondi, ma c’è anche una ricerca estetica che deflagra con fuochi d’artificio nel finale), prende anche qualche granchio ma alla fine fa dritto per la sua strada. E questo, oggi, nel brodo di coltura dei film su commissione che infestano le piattaforme di streaming, non è poco.

Perciò Nope è un film perfetto? No, assolutamente no. Peele ha un suo alfabeto, una sua sintassi e una sua dialettica e in certi casi la combinazione delle tre cose può essere respingente. Ma Peele senza dubbio sa fare cinema, sa dirigere, sa scrivere e sa raccontare. E sa anche far riflettere. Vi pare poco?

Condividi!

Leave a comment

0.0/5

0