
Leggere Dostoevskij è affrontare una sincerità che disarma. È accedere ai pensieri, ai sentimenti e alle visioni di chi scrive senza il filtro del pudore, o della vergogna, o della furbizia, o di uno stile macchinoso o artefatto che ha l’ambizione di depistare. Ci sono eleganza e purezza, ci sono ironia e onestà. C’è la vita di un sognatore che non per caso ha l’età dell’autore, c’è il suo mondo fantastico ma instabile, un mondo talmente ricco da essere fragile quanto un amore giovanile che non chiede (e non vuole, e non dá) niente in cambio. E poi c’è Nasten’ka. Il sogno in carne e ossa, un sogno anche troppo reale attorno al quale, come in una profezia, si addensano le oscure parole del protagonista. “Anche i sogni si consumano”. Ma in quelle quattro notti bianche, nel lungo crepuscolo di Pietroburgo, prima di consumarsi il sogno colora la città con “un intero attimo di beatitudine”. Un intero momento che mostra come può essere, come dovrebbe essere, una realtà non sognata. Un attimo che travolge, che sconquassa, che illumina e che redime la vita solitaria di un sognatore di sogni consumati. Ma che forse, forse, non riesce a liberarlo mai del tutto dalla sua stessa profezia? “Oggi è stata una giornata uggiosa, piovosa, senza spiragli, come la mia futura vecchiaia”.
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