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TIFFANY MCDANIEL

Tempo di lettura: 6 minuti
L’estate che sciolse ogni cosa – Tiffany McDaniel

Sai, Fielding, il fatto è che quando si rompe qualcosa di cui nessuno si cura troppo, si creano delle ombre che prima non c’erano. La ciotola, prima, aveva un’ombra. Una sola. Adesso ogni coccio ha la sua. Dio mio, quante ombre sono state create. Piccoli lembi d’oscurità che d’improvviso, insieme, sembrano più grandi di quanto fosse la ciotola. È questo il guaio delle cose in pezzi. La luce muore e si fa sempre più tenue e le ombre … Quelle vincono sempre, alla fine.

TIFFANY McDANIEL

Questo siamo, nell’universo di Tiffany McDaniel. Ombre. Ombre e marionette che si muovono ai margini del luminoso dolore inciso dall’autrice in ogni pagina del suo romanzo. Non è una caso che a catalizzare l’oscurità d’inchiostro messa in scena dalla McDaniel ci sia il Lucifero di Milton e del suo Paradiso Perduto. Non è che un caso che nella straziante carrellata di sofferenza, di perdita, di dolore e di rimpianto l’autrice riesca a parlare di ciascuno di noi. Il Diavolo che decide di essere ciò che è perché quello è l’unico modo per giustificare perdite, dolori e rimpianti fin troppo umani. Il Diavolo che arricchisce la visione di un mondo fin troppo “caldo” e reale con il senso di incolmabile perdita che lo affligge. E allora ecco il velo onirico che la McDaniel stende su ogni cosa. Un velo traslucido, a volte ovattato, a volte fin troppo reale. Un velo che si mischia con le lacrime della famiglia Bliss – con le nostre lacrime – un velo che nessuno ha mai la forza di strappare del tutto. Un velo fatto di piccoli rituali, di rinunce, di sconfitte e di coordinate. Le coordinate di un male così comune, così banale, che ha bisogno del Diavolo per essere giustificato. Non c’è salvezza ma solo la possibilità di rifugiarsi in quelle solite ombre che la sofferenza stessa proietta. Rifugiarsi nella speranza che il bagliore del dolore non ci colpisca troppo forte. Perché il suo calore non cauterizza, non cicatrizza. Ma scioglie, trascinato e sofferente, ogni cosa. E secca anche le lacrime lasciando al loro posto solo il vago sollievo di una pioggia perduta.

Lo puoi trovare qui:


L’eclisse di Laken Cottle

Di tutte le cose che ci sono state date, di tutte le cose che abbiamo ereditato dal primissimo uomo, è forse la nostra immaginazione, la nostra mente, a essere la più preziosa.

Tiffany McDaniel sceglie questo campo di battaglia per il suo romanzo: l’immaginazione. Un’immaginazione incontrollata, selvaggia, criptica e allegorica. Un’immaginazione che deforma il mondo di Laken Cottle e che lo ostacola in modi e mondi impossibili mentre tenta disperatamente di raggiungere la moglie Pearl e la figlia Ruby.

Perché un buio inarrestabile ha iniziato ad avvolgere il mondo, a ricoprire ogni cosa e Laken, più di tutto, vuole tornare a casa. Ma è sulla via del ritorno, su un aereo che si popola di ombre che vengono dal passato e che parlano di futuro, che il viaggio di Laken perde il contatto con quella che per noi – per chi legge – è la realtà.

Tutto diventa strano, improbabile, irreale. Come la borsa che Laken si trova cucita alla spalla, come Bussola, il cane a quattro code che sembra uscita da uno dei racconti del padre di Laken, come la locandiera Iris, il cacciatore di ricordi Timmons, il drago.

C’era una volta il sole.

Mormora Laken, all’inizio del romanzo, sdraiato su una spiaggia, prima che la sua vita impazzisca. E quel “c’era una volta” è per noi. Un monito, un’avvertenza,un’istruzione per l’uso. La McDaniel ci chiederà di fidarci di lei, di seguite la sua immaginazione, di lasciarci travolgere dal mosaico colorato e in apparenza senza forma con cui lastrica il nostro cammino di lettori, un tassello alla volta. Senza quest’atto di fede, quello che verrà rischia di perdere molta della sua forza.

L’eclisse di Laken Cottle da un lato non è un romanzo semplice (e nemmeno perfetto) e al tempo stesso dall’altro, per chi frequenta le taverne del weird e della narrativa di genere, mette anche troppo a nudo i fili nascosti che ne guidano la narrazione. Si lascia guardare, si espone, si mette a nudo con una sincerità che a tratti flirta con l’autolesionismo. E a volte, persino, esagera. Eppure. Eppure il maelstrom selvaggio di immaginazione che la McDaniel mette in campo finisce con il penetrare sotto pelle – come una mosca che striscia tra le pieghe di una ferita – per deporre lì le sue uova.

Sì. Abbiamo capito cosa sta per succedere. Gli indizi che l’autrice sparge per tutto il romanzo sono sin troppo evidenti, sin troppo espliciti. E quando alla fine unisce i puntini per noi, ciò che racconta non è una sorpresa. Ma è in quel momento che le larve di mosca si schiudono e tutto quello che abbiamo letto – letto a volte senza capirlo davvero – striscia fuori da alcune delle ferite che l’autrice ci ha inflitto. E continua a farlo, anche dopo l’ultima pagina.

Non dovresti mai lasciare un posto senza un sorriso, anche se il tuo cuore non sorride per niente.

Di nuovo la McDaniel si rivolge a noi. E ai suoi personaggi. Quando lasciamo la casa assurda ma sin troppo reale che ha costruito per noi, proviamo a sorridere. In qualche modo sorridiamo al sole e al nostro riflesso sulle pagine. Perché, come dice Gordonard:”Gli specchi sono buffi. Ci mostrano cosa ci manca.

Lo puoi trovare qui:

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