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La fantascienza a metà di Netflix

Tempo di lettura: 4 minuti

Ho aspettato di avere quattro casi di studio sul fantastico targato Netflix prima di provare a mettere nero su bianco le impressioni che già con un paio di titoli a disposizione avevano iniziato a vagare nella mia coscienza periferica. Quattro film (parlo solo di film, tengo le serie tv fuori da questo ragionamento) piuttosto diversi da loro ma sufficientemente simili da poter trovare un denominatore comunque, una sorta di marchio di fabbrica della N rossa.
Le pellicole (uso improprio del termine in questo caso) in questione sono per l’appunto quattro: Bright, Colverfield Paradox, Titan e Mute. Si tratta di quattro film abbastanza diversi da loro.

Bright ha un piede nel fantasy e uno nella fantascienza. Elfi e orchi sono all’ordine del giorno in una sorta di ucronia del presente dove la magia è componente fondamentale del quotidiano. Il film si muove con un certo agio tra una rivisitazione contemporanea della ghettizzazione delle etnie e la fascinazione di un mondo più mistico. Il migliore del quartetto e non a casa quello con una componente sci-fi meno marcata.

Cloverfield Paradox strizza l’occhio al confusionario ma affascinante franchise concepito da J.J. Abrams e lo arricchisce con un passo di lato che ambisce a tanto ma porta a casa poco. A dirla tutta, se non fosse per la parola Cloverfield nel titolo, la pellicola potrebbe essere un modesto filma di fantascienza con le idee poco chiare. La cosa meglio riuscita? L’incastro nella timeline cloverfieldiana.

Titan è un film confuso. L’idea di dover manipolare geneticamente la razza umana per renderla adatta alla vita su Titano (no, non il pianeta di Thanos, ma la luna di Saturno) ha un che di interessante. Ma lo svolgimento incespica andando un po’ verso La moglie dell’astronauta (1999), passando per una vaga estetica alla Splice (2009) e finendo non si sa dove.

Mute, tra i quattro, è di certo il film più autoriale. Duncan Jones non è un turista del fantastico: i suoi Moon (2009) e Source Code (2011) avevano una certa cifra e lo stesso Warcraft (2016) era un lavoro onesto e appassionato. In Mute il regista non riesce a mantenersi fedele a sé stesso. Abbraccia l’ambientazione cyberpunk senza averla compresa fino in fondo e poi si lascia guidare da un’emotività di cui scopriamo il motivo nei titoli di coda, nella dedica al padre (David Bowie, per chi non lo sapesse).

Che cosa hanno in comunque questi quattro film così diversi tra loro? Da un lato un comparto tecnico di qualità, dall’altro un’assenza. E’ come se Netflix ci provasse, ma non riuscisse mai a raggiungere davvero l’obiettivo. Manca qualcosa a questi film. Una convinzione forte, un tocco narrativo, un coraggio di fondo o una decisione chiara su cosa si sta facendo. Sono brutti? Se escludiamo Titan, no, non sono brutti. Ma non sono quello che potrebbero essere.
Faccio un paragone con il mondo delle serie-tv? Questi film sono come l’inizio di una buona serie. Non vengono limitati da un blocco centrale macchinoso ma non godono nemmeno del picco narrativo di fine stagione.
Un vecchio adagio dice:”Chi si accontenta gode” e credo che Netflix, più o meno inconsciamente, stia facendo questo. Si accontenta. Ma per un mezzo di comunicazione che ambisce a sostituirsi – o almeno ad affiancare – il canonico grande schermo, accontentarsi non basta. Ed è un peccato perché le produzioni Netflix hanno una loro positiva identità. Un qualcosa che li categorizza, che li marchia, che ne definisce la genesi. Forse il flirtare con i generi, forse il contaminare uscendo dai recenti che il cinema canonico si impone senza che nessuno lo richieda. Resta il fatto che esiste una matrice identitaria ma, almeno per quello che riguarda la fantascienza, può (e quindi deve) essere migliorata.
Avranno la forza, il coraggio e l’interesse per un salto evolutivo come questo? Ai posteri l’ardua sentenza, ma la bulimia di serie-tv a cui ci stanno abituando sembra privilegiare la quantità alla qualità.


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