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L’Uomo Invisibile – di Leigh Whannell

Tempo di lettura: 5 minuti

Non è certo la prima (e probabilmente non sarà nemmeno l’ultima) trasposizione cinematografica del capolavoro fanta-horror di Herbert George Wells, ma di certo è una di quelle lascia il segno perché esalta e potenzia gli aspetti più inquietanti del romanzo a cui si ispira. Il testo di Wells (una delle menti più raffinate che abbia mai calcato il nostro disgraziato pianeta) aveva due principali punti di forza: il primo era l’approfondimento psicologico legato al personaggio di Griffin, il viaggio verso l’onnipotenza che l’invisibilità catalizzava nella sua mente già compromessa. Il secondo era la sequenza a tinte horror, tesa e ansiogena, dell’assedio di Griffin alla casa di Kemp. Leigh Whannell, qui regista e sceneggiatore, mette a frutto la sua lunga collaborazione con James Wan, Re Mida dell’horror contemporaneo, per prendere questi due aspetti e farne le chiavi di volta del suo Uomo Invisibile. E chi se non il mecenate dell’horror Jason Blum poteva intestarsi una pellicola del genere?

LA SCIENZA DELLA PERSECUZIONE

Adrian Griffin (Oliver Jackson-Cohen) è un vero e proprio genio dell’ottica. Scienziato, ricco, brillante. Ma, più di tutto, maniaco del controllo. La sua capacità di concepire sorprendenti scoperte nell’ambito dell’ottica sembrano in qualche modo deformarne anche la mente attribuendogli abilità che flirtano con il paranormale. Griffin sa. Griffin vede. Griffin conosce. Tutto. O quasi. Nonostante questa sua capacità di entrare quasi fisicamente nella testa delle persone che gli stanno intorno, Griffin non riesce a prevedere la fuga della moglie Cecilia Kass (una sofferente e furibonda Elisabeth Moss che arriva col suo carico di dolore direttamente dai Racconti dell’Ancella). Perché Griffin, appunto, è maniaco del controllo. Non solo. È un violento marito che sviluppa per Cecilia il più morboso degli attaccamenti: lei potrebbe vivere senza di lui, vorrebbe vivere senza di lui e questo Griffin non può accettarlo.

Cecilia quindi scappa, si nasconde e quando le viene comunicato che Adrian Griffin si è suicidato tenta di ricominciare a vivere. Ma, ovviamente, qualcosa va storto. E una presenza invisibile, inquietante, misteriosa inizia a tormentarla. Whannell metta in scena un manifesto anche troppo veritiero di come funzionano gli amori tossici, le violenze psicologiche, i rapporti velenosi che troppo spesso finiscono per riempire le prime pagine di cronaca dei giornali. E lo fa usando l’horror e un pizzico di fantascienza. È facile immaginare che la presenza invisibile che tormenta Cecilia sia solo una sua proiezione. L’eredità di un rapporto malato e morboso, di un uomo malato e morboso che per tre anni ha fatto di tutto pur di intrufolarsi nella testa della moglie e distruggere tutto quello che trovava. Un uomo che anche da morto condiziona la vita della moglie, sua vittima preferita.

Whannell picchia duro anche se poi decide di giocare a carte scoperte. Per un attimo, per un breve attimo, dubitiamo anche noi che sia Cecilia a immaginarsi tutto. Perché la scienza che ha reso famoso e ricco Griffin, le sue incredibili capacità mentali, sono tutte applicate alla distruzione completa di Cecilia, della sua indipendenza, del suo essere donna a prescindere dall’uomo che le sta accanto. Whannell non fa retorica, non è manicheo nelle sue rappresentazioni, ma mette in chiaro che per ogni suo Adrian Griffin ci sono decine di migliaia di uomini che non sono invisibili, ma che rendono invisibili le donne che stanno loro accanto. E ripeto: non c’è nessun tipo di retorica nel lavoro di Whannell. Solo l’intelligente scelta di usare il Griffin di Wells, le sue manie, le sue turbe anche (e soprattutto) in questo modo.

L’ORRORE È INVISIBILE AGLI OCCHI

Preso atto che Griffin non è morto, che Cecilia non si sta immaginando tutto, che l’ex marito ha trovato davvero il modo di fingersi defunto per farla uscire allo scoperto, Whannell mette in campo tutto il mestiere che la frequentazione di Wan gli ha trasmesso (non oso immaginare come devono essere le uscite tra i due, tra una birra e una sceneggiatura spaventosa). Lo spettatore sa che l’uomo invisibile può essere ovunque, che una stanza in apparenza vuota può non essere vuota e il regista gioca con noi che guardiamo il suo film. Lascia la telecamera immobile a riprendere ambienti altrimenti neutri, lascia che cerchiamo tracce di Griffin, che sbirciamo ogni singolo dettaglio in cerca qualcosa, di qualunque cosa che si muova sollevata da una mano che non possiamo vedere. C’è tanto mestiere dietro queste scelte, ma è un mestiere che non stanca, che non annoia. Non i classici jump scare degli horror più dozzinali. No. Qui Whannell fa suo l’assedio letterario di Griffin a casa Kemp e lo trasforma in una lunga guerra di nervi, nel costante dubbio di Cecilia di non essere mai sola. C’è anche un pizzico di Entity (1981) nella geografia del terrore messa in campo da Whannell.

Copyright: Jason Blum, Kylie du Fresne

E c’è un po’ del Saw (2004) che ha creato insieme a James Wan. C’è negli incastri, nella malvagità, nella voglia di sorprendere. E anche, forse, nella scelta tutta tecnologica di Whannell. La pozione ottocentesca, il composto chimico, la formula segreta sono figlie di una altro tempo e nel mondo del 4.0, il regista sceglie proprio la tecnologia come arma a doppio taglio da far impugnare ad Adrian Griffin.

Nel complesso una bella pellicola che dura più di due ore ma che riesce a svilupparsi su più livelli suggerendo anche, senza urlare, diversi piani di lettura.

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