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DUNE – DI DENIS VILLENEUVE

Tempo di lettura: 7 minuti

Se penso a Prisoners (capolavoro e manuale di cinema fattosi carne), se penso a Sicario (capolavoro), se penso a Enemy (disturbato e disturbante) o a Polytechnique,non ho mezzo dubbio su quanto Denis Villeneuve mi piaccia come regista. Poi sono arrivati Arrival Blade Runner 2049 e lì ho iniziato ad allontanarmi dalla sua mano autoriale. Ho riconosciuto, riconosco e riconoscerò sempre le IMMENSE capacità visive di Villeneuve tanto da spingermi a dire che al momento è il meglio di cui disponiamo da quel punto di vista (salvo forse Ridley Scott che ancora può competere, ma lì poi subentrano altri problemi). Per cui sì, Arrival e Blade Runner 2049 sono una gioia per gli occhi. La fantascienza permette a Villeneuve di spingersi “là dove nessun regista era mai giunto prima” e credo sia anche per questo se la sua produzione degli ultimi cinque anni orbita tutta intorno al genere dei generi. Non voglio ‘recensire’ Dune: è un film a metà, che senso avrebbe recensirlo in modo canonico quando mancano ancora la conclusione e un bel pezzo del viaggio?

Perciò, cosa è successo? Avrei voluto uscire dalla sala gridando al miracolo, avrei voluto abbeverarmi al calice offerto da Villeneuve senza mai staccare le labbra. Ci sono riuscito? Non ci sono riuscito? Forse con Dune ho capito come relazionarmi a Denis Villeneuve quando si occupa di fantascienza. O forse no.

[HO CAPITO!]

E se pensassi al Dune di Villeneuve come una sua volontaria, desiderata e appassionata condivisione di ciò che il regista ha provato nel leggere il romanzo di Herbert? Suggestioni. Rapporti umani che si definiscono con le immagini. Per esempio la prima crepa tra Paul e Jessica, nella nebbia, lei che vede lui sfocato e viceversa, come se non si capissero più fino in fondo, come se fossero distanti tra loro. Location, colori, buoni e cattivi (forse un pelo manichea l’estetica di Harkonnen Sardaukar ma efficace, quindi ci sto) e poi ancora estetica imperiale, estetica Fremen, la violenza materiale del verme che trasforma la sabbia in una palude e le visioni di Paul, i twist sul vero significato di ciò che si pensa di aver capito del futuro, su cosa significa morire e poi rinascere. E Caladan, e Giedi Prime, e Arrakis. Un potentissimo immaginario sia estetico che cromatico che sonoro. A fare da collante a tutto questo? Il romanzo di Herbert. Perché il corpo carnale dell’anima estetica messa a nudo da Villeneuve è il romanzo di Herbert. Ma proprio il romanzo, non il film. Così il valore concettuale delle immense astronavi della Gilda – stupende – si unisce a quello estetico SOLO grazie alle conoscenze che derivano dal libro. Così la portata del piano delle Gesserit e lo stesso fardello che Paul si porta sulle spalle lo si afferra e lo si comprende SOLO grazie alle conoscenze che derivano dal libro. E lo stesso vale per concetti come il Kwisatz Haderach o il Mahdi che tutto sono meno che di facile accesso. È fondamentale digerirli? Ma forse anche no. L’estetica e la poetica di Villeneuve potrebbero bastare anche a chi non conosce l’opera di Herbert perché dietro comunque ci sono cuore, anima e anche una bella sincerità (tutte cose che mi erano mancate in Arrival e Blade Runner 2049, per dire). L’estetica può bastare perché incanta, affascina, avvolge e pazienza se il resto non è del tutto chiaro. Perciò, ecco: ho capito! Il Dune di Villeneuve è una dichiarazione d’amore (a volte anche un po’ timida, rispettosa nel replicare i tempi e i modi del romanzo) e come tale va affrontata. Certo, l’amore degli altri è sempre difficile da fare proprio ma se si riconosce la bellezza del sentimento, le cose funzionano alla grande.

Copyright: Cale Boyter, Joseph M. Caracciolo Jr., Mary Parent, Denis Villeneuve

[NON HO CAPITO!]

E se pensassi al Dune di Villeneuve “solo” come a un film? Un film che racconta di Prescelti, di predestinazioni, di eroi riluttanti, di mentori, di pianeti sabbiosi, di tradizioni, di onore, di tribù abituate a vivere in modo pragmatico, di intrighi tra casate, di buoni super buoni e di cattivi super cattivi? Un film che non ha un libro alle spalle ma che racconta una storia i cui archetipi hanno messo radici nel nostro immaginario da qualche decennio e che abbiamo visto, in salse più o meno pop, sempre negli scorsi decenni. L’estetica resta indiscussa e di valore altissimo ma si tratta di un’estetica a volte aderente solo a sé stessa. Scene grandiose, che restano impresse. Ma un susseguirsi di scene grandiose il cui valore complessivo è “solo” la somma delle parti. Niente di più, niente di meno. 

Le visioni di Paul sono visioni di un Prescelto come tanti se ne sono visti e le dinamiche in alcuni casi rischiano di apparire ingenue. Due esempi? Il dente avvelenato di Leto rivelato in quel modo, narrativamente, è un piccolo suicidio. Così come lo è l’attacco alla casata Atreides dichiarato, anticipato e annunciato a più riprese. Ma come? E allora cosa avrebbe dovuto fare Villeneuve? Cambiare il libro? Be’. Sì e no. Interpretarlo. Come ha fatto Peter Jackson con Il Signore degli Anelli. Punti di arrivo identici, percorsi differenti, più adatti, più moderni. Magari più attuali, appunto. Magari più ‘cinematografici’. Magari più figli di un canone pratico e non estetico. Magari più ibridi. Magari persino più audaci, più capaci di trasmettere quel larger than life che nell’immaginario di Villeneuve fatico a trovare. Magari anche più emotivi, perché va bene l’estetica ma far amare i personaggi e rendere tragiche le loro dipartite solo con l’estetica non è cosa da poco. Insomma, magari più qualcosa

[E QUINDI!?]

Parliamo di questioni più canoniche? Facciamolo. Posso dire che la scelta del cast funziona (altra cosa è la tridimensionalità). Che Zimmer con la colonna sonora fa un ottimo lavoro, che la fotografia è una bomba. Dune non è un brutto film, anzi, è un buon film. E insomma, alla fine? Ho capito? Non ho capito?  

Eh. Diciamo che sono a disagio. Disagio perché quando qualcosa viene quasi universalmente riconosciuto come di ENORME valore e a me non arriva come dovrebbe so bene di essere io il problema. Perciò lo dico: evidentemente ho un che di irrisolto con la fantascienza di Denis Villeneuve. Ne riconosco le capacità – e dico che sono indiscusse e lo ripeto – ma forse la sua è un’emotività con la quale io non riesco a entrare in risonanza. Che nella mia testa non crea quella rete capace di tenere insieme tutte le straordinarie visioni estetiche che offre. Capacità che restano straordinarie ma che sono (percepisco?) scollate tra loro. Senza un tessuto connettivo che mi aiuti ad attivare la rete neuronale della delizia, della meraviglia, del dramma, del “sono ancora dentro al film”. E guardate che dispiace più a me che a voi, di questo ne sono sicuro. Perché non è che Dune non mi sia piaciuto, ma ho l’impressione che non mi sia piaciuto abbastanza. O che non mi sia piaciuto come avrebbe dovuto. O, peggio, che non mi sia piaciuto come avrebbe potuto.

Ciò detto, se ci fosse una legge che stabilisce l’obbligo di realizzare trasposizioni cinematografiche dei grandi romanzi di fantascienza non solo la firmerei a occhi chiusi, ma direi che il Dune di Villeneuve è forse il meglio che si poteva fare. Eppure il mio cuore non ha perso quasi mai un battito e il mio cervello non ha mai sussultato come avrebbe dovuto. Come avrei voluto.

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