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DUNE – PARTE 2: IL MELANGE DI DENIS VILLENEUVE

Tempo di lettura: 3 minuti

C’era un fraintendimento di fondo nel mio approccio a Dune, qualcosa che mi impediva di entrare in sintonia con la straordinaria potenza visiva di Villeneuve: cercavo riferimenti, cercavo lo spiegato nelle parole dei protagonisti, cercavo la realtà (a posteriori, posso dire ipo-realtà) utilizzando i miei canonici metri di giudizio cinematografici. Mi stupivo per alcune omissioni che dal mio punto di vista indebolivano la centralità di Arrakis (perché non enfatizzare l’importanza della Spezia nei viaggi spaziali? Perché non celebrare la sciamanica potenza strategica dei Mentat catalizzata dalla Spezia? Perché offuscarne così tutti i poteri?).

Sbagliavo. Sbagliavo perché sono le due pellicole di Dune a incarnare la vera essenza della Spezia (o Melange). Il Dune di Villeneuve è un viaggio psichedelico (non stupisce che Frank Herbert, l’autore del romanzo da cui Dune è tratto, abbia teorizzato il Melange dopo aver provato la psilocibina), un viaggio nel quale la potenza estetica sovrasta (e deve sovrastare) quella narrativa classica. Suoni e immagini, colori e inquadrature. È più importante quello che non viene detto di quello che i personaggi ci raccontano, è più fondante quello che vediamo di quello che ci viene spiegato. Lo è in tutte le ricercate (ed estreme) estetiche messe in campo dal regista.

Aprire la mente, assumere la stessa Acqua della Vita che Jessica e Paul suggono nel tentativo (riuscito) di diventare ciò che sono destinati a essere. Farlo e lasciare che l’occhio di Villeneuve si sovrapponga al nostro, che ci guidi verso quello che lui vuole farci vedere. La scommessa è proprio questa: affidarci al regista e alla sua sensibilità estetica. E non chiederci il perché di tutte le cose ma lasciare che il Melange di Villeneuve ci scorra attraverso catalizzando visioni. Lasciarlo fluire, lasciare che risuoni con gli archetipi che tutti noi inseguiamo nella ricerca dell’epica di quel larger than life che è alla base di tutti i miti. Il Prescelto, la sua riluttanza, l’accettazione di ciò che deve essere fatto a costo di sacrificare ciò a cui si tiene di più.

Perciò nell’affresco di Villeneuve siamo noi quella Gilda Spaziale di cui poco si parla. Siamo noi a impregnarci di Melange, a viaggiare tra e dentro le sabbie di Arrakis in quel viaggio intra-planetario che raccoglie al suo interno l’importanza di un’intera galassia. Opporsi, permettere a una logica stringente di guidare ogni nostra percezione, è intossicarsi. È lasciar scorrere il veleno senza essere capaci di trasformarlo. Questo Dune è e deve essere puro istinto. L’istinto di emozioni che arrivano direttamente dalle immagine senza che nessun filtro intermedio debba provare a raccontarci cosa stiamo provando.

Ma proprio come succede a chi respira Spezia, dobbiamo accettare la dipendenza che deriva dall’assumere Melange costantemente. Non possiamo staccarci. Non possiamo smettere di respirare l’aria di Arrakis perché farlo vorrebbe dire intuire le imperfezioni periferiche (e a volte centrali) che rischiano di incrinare l’incredibile e maestoso affresco di Villeneuve.

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